In quella confessione politico-esistenziale che è Dall’altra sponda Aleksandr Herzen, ormai approdato a Parigi, spiegava come l’Europa occidentale si fosse potuta permettere di ignorare i destini di quella orientale, finché il futuro mondiale – prima delle rivoluzioni del 1848 – non le si era presentato altrimenti se non come una continuazione del proprio inarrestabile progresso.

QUESTA CONSTATAZIONE che, non a caso, Dieter Groh avrebbe scelto come epigrafe del suo studio La Russia e l’autocoscienza di Europa, suona sinistramente attuale ora che la società europea non solo è chiamata a far fronte all’aggressione russa dell’Ucraina, ma è anche costretta a interrogarsi sulla propria sottovalutazione della politica di Vladimir Putin dall’annessione della Crimea in avanti. Da «presidente post-traumatico» (Anna Zafesova) che aveva costruito all’interno il proprio consenso sulla promessa di sanare gli shock provocati dalla caduta dell’Urss, l’uomo del Cremlino si è trasformato nell’interprete di una politica di espansione «preventiva» mirante a scongiurare l’ingresso dei paesi confinanti nel sistema di difesa atlantico che, accompagnata dall’azzeramento di qualsiasi opposizione o voce dissenziente interna, ha trascinato la Russia in una tragedia di cui, al momento attuale, non è dato calcolare né l’ampiezza, né l’irrimediabilità. Per la nota eterogenesi dei fini, la sua decisione di violare i confini di uno stato sovrano ha contribuito a dare coesione a un paese come l’Ucraina che al suo interno raccoglie le eredità storico-culturali – laceranti e lacerate – di molti popoli diversi.
Vero crogiuolo di identità – dai tatari di Crimea alle minoranze russofone del Donbass, dalle comunità ebraiche di Odessa e di Kiev fino ai polacchi che fino al 1945 vivevano a Leopoli, prima di essere deportati dai sovietici a ovest (così come d’altronde rumeni e tedeschi risiedevano a Cernivci) – l’Ucraina è, lo attesta il nome stesso, una «terra ai margini» – kraj è il termine slavo per confine.

SE QUESTA SUA INNATA liminalità la rende facile preda di opposti imperialismi, nonché ricetto di nazionalismi non meno ferali, d’altronde occorre ricordare come l’Ucraina attuale, sorta dalle ceneri dell’impero austro-ungarico e di quello zarista, nonché dal sangue della guerra civile infuriata all’indomani della rivoluzione bolscevica, abbia dato i natali ad alcune delle figure più cosmopolite e incollocabili che la storia europea possa vantare.
Poeta di lingua tedesca e origine ebraica, morto suicida nelle acque della Senna, Paul Antschel, alias Paul Celan era nato nel 1920 nel capoluogo della Bucovina settentrionale Cernauti, ora Cernivci. Esegeta di Plotino, Dostoevskij, Nietzsche e Kierkegaard, il filosofo Lev Sestov aveva visto la luce a Kiev col nome di Ieguda Lejb Svarcman. E il futuro scrittore Il’ja Erenburg, che insieme a Vasilij Grossman nel Libro nero avrebbe denunciato per primo i crimini commessi dai nazifascisti nei territori ucraini occupati, all’inizio del Novecento, ogni qual volta a Mosca commetteva qualche marachella di troppo, veniva spedito dai genitori ad «annoiarsi» a Kiev, città dov’era era venuto al mondo.

Se la storia ucraina si compone di queste aggrovigliate trame, d’altro canto è scandita anche e soprattutto dall’ostinato tentativo di affermare una propria indipendenza, emancipandosi dalla sudditanza nei confronti dei vicini.
A tale proposito, è emblematico l’episodio ricostruito anche da Prosper Mérimée cui si fa risalire la formazione in nuce di uno stato ucraino autonomo, e cioè la rivolta capeggiata da Bohdan Chmel’nyc’kyj, etmano dei cosacchi di Zaporizzja, che nel 1648 con l’aiuto dei tatari di Crimea sconfisse più volte gli eserciti della confederazione polacco-lituana.

PARADOSSALMENTE fu proprio Chmel’nyc’kyj a consegnare le terre ucraine, che fino ad allora avevano gravitato nella sfera d’influenza polacca, al controllo dei russi, allorché al termine della sollevazione convinse i cosacchi a mettersi sotto la protezione dello zar Aleksej Michailovic.
Cruciale per l’etmano era la lotta per la fede ortodossa contro la crescente diffusione della chiesa uniate (di rito greco, ma osservanza romana) nelle terre popolate da cosacchi e ucraini. Una rivendicazione certo non sorprendente, considerando che la conversione al cristianesimo delle popolazioni slavo-orientali nel 988 era avvenuta proprio sotto l’egida del gran principe di Kiev Vladimir, che aveva accolto il messaggio evangelico proveniente da Bisanzio. A seguito di questa mossa, la città sulle sponde del Dnepr’, fondamentale snodo commerciale sulla via fluviale variago-greca, diventerà sede di un’intensa attività scrittoria, connessa alle esigenze evangelizzatrici, cui si fanno risalire le origini stesse della civiltà letteraria della Rus’. Lo splendore di Kiev verrà meno soltanto nel 1169, quando il principe di Vladimir-Suzdal Andrej Bogoljubskij, la saccheggerà, per poi tramontare nel 1240, allorché la città verrà distrutta dai tatari dell’Orda d’Oro giunti dalle steppe mongole. Un precedente che ora, in un ripetersi della storia che lascia sgomenti, nuove orde tentano di imitare.