Pensiero e azione, una visione del mondo e azione in grado di imprimere cambiamenti: il documentario di Francesco Miccichè Lino Miccichè mio padre, una visione del mondo presentato alla Mostra di Venezia come Evento speciale in collaborazione con la Settimana della critica e Giornate degli Autori (una seconda proiezione è stasera in Sala Perla alle ore 20) è un affettuoso gesto d’amore oltre che importante percorso della nostra storia, che permette anche agli innumerevoli amici, seguaci, avversari, colleghi di quel battagliero personaggio che apriva numerose strade, di ritrovarlo così com’era.

Di risentire la sua vis polemica nel suo discorrere inimitabile, la sua creatività organizzativa, la passione per il cinema che gli faceva muovere le montagne. È proprio il caso di dirlo, come quando faceva uscire dai paesi sotto controllo cineasti e film che ritrovavano la libertà per essere proiettati alla mostra del nuovo cinema di Pesaro. Immaginavamo con gran divertimento negli anni Ottanta i suoi faccia a faccia con i burocrati dei paesi dell’est costretti dal suo carattere inflessibile e dalla sua logica pressante a concedere i visti o concedere sessioni fiume negli archivi chiusi per tutti a doppia mandata (lui amava molto raccontare le estreme raffinatezze a cui arrivavano quei politici burocrati in certo casi, come quando diedero a Bohumil Hrabal, lo scrittore boemo supercensurato l’incarico di bruciare i libri proibiti). E, lo ricorda il film, quando passava all’azione accogliendo in casa sua registi sudamericani in esilio, «zio Miguel» come chiamava il regista Miguel Littin.

Non è stata solo una scuola di cinema il festival di Pesaro che Lino Miccichè fondò con Bruno Torri (due caratteri quando mai diversi, complementari e capaci entrambi di abbattere muri) nel ’64 dopo un viaggio in latinoamerica, ma anche un esempio di come si poteva passare all’azione per provocare il cambiamento. Se il film è politica, bisogna aggiungere che «se nella vita c’è anche un bel film si è più felici» come dice Lino (lo chiamiamo così familiarmente in quanto collega) proprio in apertura del documentario.

Filo conduttore della sua visione del mondo è stato l’impegno politico unito a quella passione per il cinema tanto trascinante da riuscire ad aggregare migliaia di studenti a Pesaro, dare il via e seguire con attenzione la considerevole quantità di volumi editi da Marsilio per la Mostra di Pesaro, collana diretta con Giorgio Tinazzi, perfino dare una certa linea ai critici cinematografici nel Sindacato nazionale (Sncci) di cui è stato presidente, creare la Settimana della Critica sulla linea di quella di Cannes, che esprimesse una visione decisamente autoriale e di scoperta dei nuovi linguaggi, ed è stato presidente della Fipresci, la federazione internazionale dei critici.

e fu lui, già docente a Trieste, a poi imprimere una svolta negli studi universitari a Roma Tre, poi trasformando la ragione sociale al centro sperimentale di cui diventò presidente in modo da permettere anche la produzione di film fino ad allora impossibile per statuto. Finché per la seconda volta il berlusconismo incrociò nuovamente la sua strada bloccando le sue iniziative proponendo al suo posto con un presidente organico al sistema. Aveva già compiuto nel passato un gesto eclatante dando le dimissioni dall’Avanti, di cui era, di corrente lombardiana, da 34 anni critico ufficiale della testata, quando il direttore Antonio Ghirelli censurò un suo articolo contro le interruzioni pubblicitarie, grande battaglia che aveva condotto con tutto il mondo del cinema («non sono stato censurato da Craxi, diceva, ma dalla Fininvest»): vediamo nel film le immagini significative della storica manifestazione all’Eliseo che vide riunito tutto il mondo del cinema, sconfitto in nome della «modernità».

La sua vocazione di critico che lo portava a viaggiare ininterrottamente alla scoperta del nuovo cinema, era unita strettamente a quella di professore quando il cinema non esisteva neanche come materia di studi

Parlano di lui colleghi e collaboratori, ricordando i momenti chiave della sua attività: Cecilia Mangini racconta le vicende di All’armi siam fascisti (’62) firmato con Lino Miccichè e Lino Dal Fra che si erano divisi gli archivi internazionali da esplorare poiché in Italia era stato impossibile attingere alla documentazione. Nel film si vedevano per la prima volta immagini inedite del ventennio dell’Istituto Luce accompagnate dal commento forte e poetico di Franco Fortini, uno dei motivi fondamentali dell’importanza del film, che metteva in evidenza in maniera inedita i legami tra Chiesa, industriali e fascismo («nel testo ho accettata la definizione del fascismo come l’organizzazione armata della violenza capitalistica»), un film censurato già in fase di lavorazione, congelato, non trasmesso in tv.

Salvatore Piscicelli, che prima del suo esordio come regista fu a lungo segretario della Mostra, Adriano Aprà, Marco Müller, Giovanni Spagnoletti che ne sono stati direttori raccontano altri momenti cruciali (gli scontri con la polizia a Pesaro, le mitiche tavole rotonde in cui si vedeva il cambiamento della storia, come una memorabile tavola rotonda dei cineasti sovietici un attimo prima della dissoluzione dell’Unione delle repubbliche). «Lui era il muro con cui valeva la pena scontrarsi», commenta Aprà, che è stato direttore della Cineteca nazionale dal ’98 al 2002: «abbiamo restaurato 150 film negli anni in cui Lino era presidente del Centro Sperimentale».

E poi ancora Mino Argentieri, Marco Bellocchio, Citto Maselli che ne ha condiviso tutte le battaglie, Vito Zagarrio («Era una specie di re Mida della cultura»). E ritroviamo anche la voce di Michelangelo Antonioni, in una celebre intervista che Miccichè gli fece per la Rai. Il racconto di un padre, ma anche di un’epoca, Qualcosa deve essere rimasto di tutta quella semina abbondante anche se, come dice Bellocchio: «La mia generazione è come se (e qui fa una lunga pausa) fosse stata sconfitta».