Tra I e IV secolo una nuova realtà si impose nella società circummediterranea, contribuendo forse più di qualunque altra componente a mutarne, a rinnovarne, sotto certi aspetti a sconvolgerne la natura: al punto tale che, fra XVIII e XX secolo, molte furono le voci di uomini di cultura e anche di storici che accusarono il cristianesimo di aver causato la «decadenza» e la «caduta» dell’impero romano. Accuse del genere appaiono oggi desuete e datate. Quella cristiana rappresentò comunque, senza dubbio, una grande rivoluzione la cui storia è stata raccontata e ripensata molte volte, di recente da Robert Louis Wilken nel suo I primi mille anni. Storia globale del cristianesimo (Einaudi, 448 pp, euro 30).

Nonostante il titolo dell’opera parli dei «primi mille anni», buona parte del testo è dedicata alla primissima affermazione, quella che cronologicamente coincide con l’età che oggi si tende a definire come «tardoantica». La seconda metà del millennio, infatti, prende grossomodo un terzo del libro, ma Wilken (e questo è un elemento se non di assoluta novità, quantomeno insolito) guarda oltre Roma e Costantinopoli, pe descrivere in brevi ed efficaci capitoli le forme che il cristianesimo assumeva man mano che arrivava all’Armenia, all’Etiopia, all’India.

Scrive l’autore: «L’Etiopia è un esempio particolarmente vivido del modo in cui il cristianesimo assunse forme differenti presso differenti popolazioni. Sebbene avesse subito l’influenza del cristinesimo egiziano, e fosse vicina alla Nubia, l’Etiopia creò una cultura cristiana propria. Lo storico Peter Brown ha coniato la dicitura «microcristianità» per descrivere questo fenomeno. Ciascuna Chiesa nazionale possedeva tutti i segni della fede cristiana, vescovi, credo, liturgia, Scritture, sacrameni, monachesimo, e in tal senso creava un intero mondo cristiano, tuttavia la forma che la vita e le istituzioni cristiane assumevano variava in modo sostanziale».

Wilken dedica anche diversi capitoli alla diffusione dell’Islam lungo le sponde del Mediterraneo fino alla penisola iberica, e alla condizione dei cristiani sotto i nuovi dominatori.

Traspare, dalle parole dell’autore statunitense, come il successo di questa diffusione fosse in larga parte dovuto ai cattivi rapporti fra le Chiese locali e Bisanzio, a causa delle divergenze teologiche e delle conseguenti persecuzioni. Per esempio, a proposito dell’Egitto, leggiamo: «Il capo della comunità cristiana copta, la più grande confessione cristiana d’Egitto, era Beniamino. Al momento dell’invasione islamica si era nascosto, non per paura dei musulmani, ma per sfuggire alla persecuzione di Ciro, inviato in Egitto proprio per sottomettere i cristiani copti e riportarli all’interno della Chiesa imperiale».

Tuttavia l’argomento resta appena accennato e il tema non viene esplicitato. Il che ci porta al problema principale d questo libro. Wilken sembra interpretare l’affermazione del cristianesimo come un processo senza particolari scossoni.

Questo si traduce nello scarso peso che viene dato alla decisione di Teodosio (379-395), ribadita dai suoi successori, di proclamare il cristianesimo religione di stato e di bandire conseguentemente ogni culto «pagano». A quel tempo, i cristiani erano una minoranza, per quanto importante, in seno all’impero; e il trionfo del cristianesimo sulle altre fedi avvenne non solo grazie alle buone opere (che certo non mancarono) e alla predicazione, ma anche a imposizioni e persecuzioni violente.

Nel 397 l’imperatore d’Oriente Arcadio decretò che i materiali prelevati dai templi pagani sarebbero stati reimpiegati per l’edificazione di opere pubbliche, dando così ulteriore impulso alla demolizione dei santuari. Agli inizi del secolo successivo bande di «circumcellioni», cristiani al servizio dei vescovi egiziani, al grido di «Dio sia lodato!» pestavano e spesso ammazzavano a bastonate coloro che rifiutavano la conversione e tenevano in vita la cultura precristiana.

È il caso di Ipazia, nata in Alessandra verso il 370 d.C. e vissuta fra Atene e la sua città natale; era figlia del matematico Teone e matematica lei stessa. Dopo un soggiorno ad Atene, rientrò ad Alessandria dove aprì una scuola nella quale commentava Platone ed Aristotele. Per mano dei circumcellioni Ipazia subì un orribile martirio, ma il suo nome non compare nel libro di Wilken. Certo anche per mancanza di spazio, in un testo che deve condensare tanti argomenti in un numero relativamente scarno di pagine.

Il consiglio che si può dare, però, è quello di leggerlo sì, ma accompagnandolo almeno al testo, pure abbastanza recente, di Franco Cardini, Cristiani perseguitati e persecutori (Salerno Editrice, pp. 188, 12,50 euro). Perché il carattere rivoluzionario del cristianesimo emerga nella sua complessità e non si tramuti in una sorta di progresso «naturale» della storia dell’umanità.