Il secondo romanzo della trilogia storica di Amitav Ghosh, River of Smoke, si chiude con un’amara considerazione pronunciata dal mercante di Bombay che si è arricchito sfidando gli inglesi nel contrabbando dell’oppio in Cina. L’unico risultato ottenuto da questo commercio insensato e dalla rovina di un intero popolo è stato insegnare alle nuove generazioni di indiani a «parlare l’inglese, indossare pantaloni e berretti e giocare a cricket». Ebbene, l’ultimo romanzo di Aravind Adiga, Selection Day (eccellente traduzione di Norman Gobetti, Einaudi, pp. 307, € 20,00) sembra ripartire da questo punto, con la differenza che Adiga converte la gravitas del dramma coloniale nell’ambigua leggerezza del racconto picaresco.

Un rito di passaggio
Il titolo, Selection Day, si riferisce a quella sorta di esame di maturità del giovane giocatore indiano di cricket che, dopo anni di duri allenamenti e inenarrabili sacrifici, ha un’unica occasione per dimostrare ai talent scout nazionali e internazionali che è degno di giocare in una grande squadra. Più che di una competizione sportiva della durata di un giorno, si tratta di un rito di passaggio dall’infanzia alla maturità, dall’oscurità alla fama e, in molti casi, dalla miseria alla ricchezza, che esige una scommessa originaria dagli esiti incerti sul talento di un ragazzo, una lunga e sofferta gestazione, e che non determina soltanto le sorti di singoli individui bensì quelle di interi clan familiari.

In questa storia rutilante ambientata a Mumbai a vivere nell’ossessiva proiezione del selection day non è soltanto un ragazzo ma due: i fratelli Radha e Majunath Kumar, figli di un venditore di chutney brutale e visionario, determinato a uscire dallo slum nel quale vive facendo dei figli una coppia di «Giovani Leoni» del cricket unica al mondo. Il romanzo segue le tracce della famiglia Kumar dai tre anni che precedono la fatidica selezione agli undici anni successivi, offrendo ai lettori uno spaccato straordinariamente divertente e altrettanto disincantato dell’India contemporanea, osservata e commentata – come in presa diretta – dagli operatori dello sport che, forse più di ogni altra cosa, rappresenta la memoria vivente del passato coloniale.

«Bisognava che gli inglesi se ne andassero, perché cominciassimo ad apprezzare davvero i benefici della loro civiltà», afferma Anand Metha, il ricco e annoiato mumbaita che passa la vita a rimpiangere l’America e si lascia convincere a investire denaro sulle glorie future dei fratelli Kumar, «da noi il governo è obbligato a promuovere la pratica di questo gioco. Siamo seduti su una bomba a orologeria: a causa del fenomeno dell’infanticidio femminile, alla nostra popolazione mancano almeno dieci milioni di donne. In mancanza di donne da sposare, o semplicemente con cui accoppiarsi, i giovani maschi indiani andranno sempre più fuori di testa, è questa la mia previsione. Ora una cosa sola può salvarci da tutto questo testosterone indù allo stato brado. Cri-cket».

Sul segreto del successo
Il cricket – la sua ritualità, la sua «profonda e intrinseca insulsaggine», «l’insistenza sul fair play e i pareggi onorevoli», la ferrea disciplina igienica e alimentare, l’abbigliamento candido – rappresenta il miglior dispositivo di controllo delle energie sessuali e sociali della nazione lasciato in eredità dagli inglesi. In ciò risiede il segreto dell’ininterrotto successo di questo sport, dall’epoca del Raj alla «decadenza postcapitalista» delle megalopoli moderne: quell’attitudine – funzionale all’impero tanto quanto al neocolonialismo della finanza internazionale – a perpetuare l’immagine di un’India dignitosa e romantica, capace di contenere la dionisiaca eterogeneità religiosa, sociale e linguistica nella quieta potenza di un posticcio spirito apollineo.
«Gli indiani sono fondamentalmente una razza sentimentale con il colestorolo alto. Ora che la sua fame di realismo sociale non è più soddisfatta dal cinema hindi, il pubblico indiano guarda al cricket».

Nelle pieghe di una narrazione asciutta, veloce, ellittica, tenuta in costante tensione tra il pathos e il sarcasmo, Adiga lascia così intravedere una ricca tradizione di ritratti indiani (da Kipling e Forster fino a Salman Rushdie, Vikram Seth, Vikram Chandra, Suketu Metha), nei quali l’esuberanza della commedia umana si coniuga con momenti di pungente riflessività. Per esempio, nella descrizione di Mohar Kumar, il patetico venditore di chutney disposto a elargire laute somme al dio del cricket pur di assicurarsi il successo del suo metodo educativo, che include il divieto per i figli di radersi, ispezioni settimanali dei genitali, dieta rigorosamente vegetariana, nonché una serie di perle di saggezza indù sintetizzabili in un’unica massima: «Chi ruba tanto la fa franca, chi ruba poco viene beccato». E incisivo è anche il ritratto di Manju, il minore dei fratelli Kumar, destinato dal padre ad affiancare il maggiore senza offuscarne l’aura, e diviso tra il senso di lealtà alle ambizioni paterne e la passione per la scienza e per il suo miglior amico, che sale inaspettatamente al ruolo di protagonista della storia di successo orchestrata dai suoi finanziatori, ben sapendo che il selection day decreterà per lui la fine delle possibilità di scelta. Infine, il personaggio di Tommy Sir, l’inflessibile talent scout indiano dall’inglese comicamente forbito, che abbraccia il sogno dei fratelli-campioni non tanto per vanità quanto per avidità, ma è incapace di dire «la colossale bugia che al giorno d’oggi tutti coloro che hanno a che fare col cricket sono tenuti a sottoscrivere, che stringi stringi si riassume in un’unica ingannevole affermazione: il cricket in India sa ancora di buono».

È in questo personaggio più anglofilo degli inglesi, scisso tra l’orgoglio nazionale e «un riluttante rispetto per i farabutti, razziatori e filibustieri che nel diciottesimo secolo avevano edificato il Raj», che il romanzo concentra tutta l’ambivalenza attanagliante l’India di oggi.

Un codice regolativo
Che sappia di buono o di cattivo, nelle mani di Adiga il gioco del cricket diventa ciò che il lessico angloindiano è nella scrittura di Kipling: un codice di regolazione di gesti, pensieri e attitudini culturali, familiare a pochi iniziati ma ostico per chi è esterno a quel mondo, tanto che la maggior parte dei lettori si ritrova nello scomodo ruolo dell’estraneo.
Una scelta di campo precisa e, stando a quanto afferma provocatoriamente il colto analista del romanzo, che sovvenziona la carriera dei Giovani Leoni, del tutto controcorrente: «ciò che gli indiani vogliono dalla letteratura, almeno quella scritta in inglese, non è affatto letteratura, ma adulazione. Vogliamo vederci rappresentati come persone appassionate, sensibili, profonde, calorose, ferite, tolleranti e spiritose. Tutta quella roba alla Jhumpa Lahiri. Ma la verità è che non siamo affatto così. Siamo animali della giungla pronti a divorare i figli dei nostri vicini in cinque minuti e i nostri in dieci».