Non si può scrivere in Israele senza essere degli autori politici, per etimologia, né si può essere scrittori in Israele senza sentire la politica nel senso primordiale, fondativo, di un termine che abbraccia sia una radice storica sia, nello stesso tempo, una coazione ormai così protratta e dolorosa da somigliare a un destino.

Amos Oz, pseudonimo dell’ebreo di origini ashkenazite Amos Klausner (nato a Gerusalemme nel 1939 e mancato ieri nella sua città), è stato scrittore politico nel senso pieno per un decorso familiare e poi per una scelta che lo ha reso testimone di un mondo lacerato, presto diviso in due, dentro e fuori di sé, dalla tragedia del popolo palestinese la cui vicenda replicava e dilatava immensamente ai suoi occhi, nei termini della esclusione e di una crudele persecuzione, gli incubi di una vita domestica letteralmente esplosa dopo il suicidio di sua madre e il tenace sanguinoso conflitto che subito lo divise da suo padre, un intellettuale dell’estrema destra nazionalista.

OZ È UNO PSEUDONIMO che significa «forza» e il termine dice molto di questo giovane adottato la cui vera famiglia diviene il kibbutz di Hulda, diretta filiazione del Partito laburista cui il futuro scrittore aderisce appena quindicenne. Politica è dunque per lui non solo e non tanto una esigenza di engagement quanto un fervore collettivo, un progetto civile di edificazione dal basso e di riscatto dalla persecuzione che rende fattiva, condivisa e alla fine si direbbe «naturale» l’utopia del socialismo.
Oz dirà più volte, specie nel romanzo autobiografico che lo ha universalmente consacrato, Una storia di amore e di tenebra (2002), di essere negato al lavoro manuale ma di avere appreso nel kibbutz le nozioni fondamentali dell’essere al mondo e, prima ancora, dell’essere con gli altri nel mondo. Anche quando se ne andrà dal kibbutz, non prima dei pieni anni ottanta, al crepuscolo del socialismo israeliano e in un drammatico passaggio di fase che vede il paese stravolto dalla aggressività sciovinista delle destre ascese al potere, ne parlerà con nostalgia nei termini di un sedimento profondo e di una definitiva immunizzazione.
Qui va detto che Amos Oz, benché educato da bambino in una scuola religiosa (dove ebbe insegnante una poetessa celeberrima in Israele, Zelda) non sarà mai un credente ma un laico refrattario al credo dei padri come alle religioni secolarizzate che nel Novecento a lungo sono state le ideologie politiche. Egli fu semplicemente un socialista democratico ma nondimeno un radicale come può esserlo chi crede in una elementare, inscalfibile, eguaglianza tra gli esseri umani.

QUANTO A QUESTO, fra le decine di saggi e romanzi che costellano la sua longeva e ricchissima bibliografia (da In terra di Israele a Contro il fanatismo del 2004, da, circa la narrativa, Michael mio a Il monte del cattivo consiglio, del ’76) spicca alla maniera di un baricentro e di un retrospettivo romanzo di formazione Una pace perfetta concepito nel 1970, redatto fra il ’76 e l’’81 e pubblicato in patria solo nel 1982 (poi in Italia da Feltrinelli nel 2009).
L’opera risale appunto alla prima maturità di Oz, perciò agli anni immediatamente successivi alla guerra dei Sei Giorni, e la scrive il kibbutzim poco più che trentenne ma già anziano militante laburista in fuga dalla sua cupa vicenda familiare. Una pace perfetta anticipa la materia autobiografica di Una storia di amore e di tenebra e appare se possibile un racconto ancora più compiuto, nel senso della compattezza e di una ispirazione che non scende dal suo apice nonostante la struttura comporti continui cambi della prospettiva e sbalzi nell’assemblaggio linguistico-stilistico.

PROTAGONISTI non sono individui singoli ma ancora una volta la comunità, il kibbutz, la cui dinamica si estende dal Bildungsroman vero e proprio a un romanzo di formazione collettivo, mentre il contrasto fra ideale e reale, tipico di ogni romanzo, si traduce nella lotta fra la generazione dei pionieri (la stessa di Ben Gurion e Golda Meir) e quella dei figli irrequieti e perplessi ovvero fra i vecchi ebrei immigrati nella Palestina del Mandamento inglese e i giovani cittadini israeliani che ormai portano con orgoglio la divisa di Tzahal.
Il clima da catastrofe incombente, un inverno rigido e eternamente piovoso schermano la matrice solare e originaria del kibbutz, il suo ideale laico e pauperista. Tale, e una volta per sempre, è comunque l’universo di Oz, uno spazio di radure strappate al deserto in cui convivono operai e contadini, dove si utilizzano macchine rudimentali ma non mancano una biblioteca e un quintetto musicale, mentre non vi esistono né una sinagoga né un rabbino, nonostante tutti sappiano citare a memoria la Bibbia.

LE FIGURE CHE EMERGONO dal coro testimoniano di una nuda umanità ma rigettano qualsiasi credo identitario: lo stesso ricordo della Shoah è una terribile ipoteca che rimane per costoro sullo sfondo, è il finale apocalittico di una vicenda chiusa non l’innesco di una storia paradossalmente trionfale quale invece sarà per le classi dirigenti successive alla guerra dei Sei Giorni, come rilevano, con sgomento e d’accordo con Oz, i nuovi storici israeliani, da Idith Zertal a Tom Segev, l’autore di Il settimo milione.

IN TUTTA LA SUA OPERA, l’autore accompagna il ricordo della epopea del kibbutz nei modi di una severa elegia dove si affacciano di volta in volta i miti, anonimi, volti del sogno comunitario. Oz, scrittore la cui pagina allude alla cadenza della riflessione, li osserva e dà loro la parola quasi con sgomento, come scrivesse da un tempo irrimediabilmente postumo rispetto a un presente viceversa armato fino ai denti dove la violenza è acclamata, la protervia giustificata nel senso comune con stoltezza temeraria. Diversamente da alcuni suoi pari (per esempio David Grossman e Abraham Yehoshua, che volentieri ricorrono nei loro romanzi al mito e persino al sostrato folclorico di Israele), Oz guarda da sempre nella sua narrativa alla dinamica degli esseri più semplici, a individui chiusi e talora imprigionati nel ciclo di vivere, lavorare e morire.

ELENA LOEWENTHAL, traduttrice elettiva di Amos Oz, fedelissima alla polifonia delle sue partiture originali, di lui ha parlato (in Scrivere di sé. Identità ebraiche allo specchio, Einaudi 2007), come di «un incrocio inestricabile di esperienza personale e collettiva» o meglio ancora di una «immedesimazione fra i destini individuali e destino collettivo che tracciò in quegli anni la nascita della coscienza nazionale».
Oggi è molto triste rammentare che una simile epopea è da decenni cancellata, in Israele: i politici di estrema destra e i rabbini bigotti cui sono delegati il governo e la manutenzione dell’identità spirituale del paese ritengono ovviamente che la storia del kibbutz sia il prodotto di un’epoca nefasta, morta e sepolta con i suoi ideali di uguaglianza fra gli esseri umani.