La fin de siècle a Bilbao non sembra conoscere la figura del flâneur, ma pullula di operosità: la città basca, infatti, trasforma in una manciata di anni il suo paesaggio rurale e marittimo di antica tradizione in un centro propulsore della Spagna con il rapido sviluppo dell’industria navale e siderurgica, coniugate al commercio, alle attività bancarie e a quelle culturali.
La riconversione museale dettata dalla pandemia in corso – che ha reso meno impermeabili le frontiere e riconsegnato i luoghi dell’arte alla cittadinanza di prossimità – ha interessato anche il Guggenheim disegnato da Gehry: il museo ha deciso di affrontare il 2021 aprendo la mostra Bilbao e la pittura (fino al 29 agosto): attraverso una serie di dipinti, vi si racconta la storia della metropoli a cavallo tra i due secoli, quando la società mutava e borghesi e paesani si incontravano nei mercati o alle feste popolari, ridefinendo le loro identità dentro nuovi confini sociali. Una corsa verso il progresso e il cambiamento che si è schiantata contro la tragedia della guerra civile del 1936.

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IL GUGGENHEIM è stato chiuso da marzo a giugno (non nella seconda ondata pandemica) e, nonostante le circostanze avverse, ha registrato numeri positivi grazie alla risposta massiccia del pubblico e al supporto delle iniziative digitali. Naturalmente, si è invertita la tendenza degli anni precedenti. Nel 2020, il 61% dei visitatori è stato spagnolo, il 39% proveniente da altri paesi, come Francia (18%), Gran Bretagna (3%), Germania (3%), Italia (2%), Portogallo (1%) e Stati Uniti (1%). I visitatori dei Paesi Baschi si sono attestati al 30%. Anche l’età media del pubblico si è abbassata, contando un gran numero di giovani e adolescenti, stimolati dalle installazioni di Olafur Eliasson.
La mostra in corso descrive – attraverso le opere di artisti che dopo essere stati a Parigi hanno reinventato la loro tavolozza sulla scia degli impressionisti e poi delle avanguardie – una Bilbao sospesa tra vecchi modelli di vita contadina e moderni modelli urbani, scaturiti dall’industrializzazione. «È un tema che è nelle maglie della mia ricerca da più di trent’anni – spiega il curatore Kosme de Barañano – Come una piccola ’villa’ commerciale e portuale possa diventare una città di enorme magnetismo imprenditoriale, nel mezzo di due guerre civili e attraversando peste e colera. La risposta è chiara: è lo sforzo del cittadino comune che immagina un futuro migliore. Basti pensare che il primo club in stile inglese, la Sociedad Bilbaina fu fondata nel 1839, mentre Bilbao subiva bombardamenti. Non va dimenticato poi che Bilbao, all’inizio del XIX secolo, gli anni dell’occupazione francese 1808-1812, contava già su mercanti cosmopoliti, con conoscenza dell’inglese e del francese, e con un vasto giro commerciale nel nord dell’Europa».
L’esposizione non guarda soltanto alle radici di una potente capacità imprenditoriale, ma in una prospettiva antropologica mette a fuoco in alcune sale – in particolare nella terza galleria – un mondo che resiste alla sua stessa sparizione. «Gli studi sul folklore, cioè l’etnografia divenuta scienza universitaria, così come le ricerche sulla preistoria e la scoperta delle grotte paleolitiche nei Paesi baschi, vanno di pari passo – continua Kosme de Barañano -. E gli artisti interpretano questo folklore secondo le considerazioni di quei docenti a loro contemporanei, pionieri nella creazione di nuove scienze sociali».

COSÌ, ANCHE LE FESTE, i riti, il Carnevale finiscono al museo, per rappresentare l’inventario di un universo che sta per eclissarsi ma che si profila in forma di «archivio visivo» e di esperienza vissuta e da vivere ancora, a ogni ricorrenza. Come le Danze Souletine e la Masquerade di Zuberoa, «antichissimi riti del sopraggiungere della primavera, che risalgono a migliaia di anni fa, come testimoniano le ceramiche iberiche di Numancia. Il pittore Ucelay, ad esempio, condensa questi balli popolari nella sua pittura».

NON A CASO, a concludere il percorso della mostra è proprio il dipinto di José María de Ucelay, che offre una visione enciclopedica sulla celebre mascherata di Zuberoa, con le sue danze che raccontano i capovolgimenti carnevaleschi. «Ancora non si è dedicato uno studio a tutto ciò che soggiace a questo insieme di balli e al significato metaforico dei suoi personaggi principali – sottolinea Kosme de Barañano -. È necessario porre l’attenzione, infatti, sullo zamalzain, il dantzari-caballo, un simbolo che attraversa l’Europa: dalla testa di Lascaux e il candelabro votivo di bronzo conosciuto come cavallino di Calaceite fino al detto inglese ’hobby horse’, studiato in arte da Gombrich… Per non parlare poi della valenza funeraria attribuita a questo animale – come ha dimostrato José María Blázquez – nella cultura mediterranea e iberica. Ci sono inoltre i saggi di Rodney Gallop sugli zamalzains in Polonia e Grecia e non va dimenticato anche il cavallo di Lanz, il zaldiko, che ricorda quello inciso nell’osso, risalente al Paleolitico, e trovato in una caverna in Inghilterra: mostra un uomo dalla faccia coperta da un cavallo. Questa mascherata è una festa che ha a che fare con il rito di addomesticazione dei cavalli. Compare durante l’Età del bronzo, con i rituali della castrazione e della ferratura, in seguito si sono aggiunti gli stili di monta e le redini. Gli addestratori e i maniscalchi esercitavano mestieri speciali, erano individui in grado di bisbigliare e calmare i cavalli per poterli cacciare e evirare, ottenendo così prestazioni migliori. Molte città continuano a svolgere feste attorno a questo rito e la mascherata di Suletina ne è una teatralizzazione, trasformata in un susseguirsi di danze. Nel quadro, in primo piano, sono evidenti gli strumenti musicali utilizzati per la celebrazione: fisarmonica, alboka, ttun ttun e txirula, questi ultimi due tipici della danza e in generale dell’area basca francese».

È COME SE L’ARTISTA Ucelay cogliesse quei momenti, un attimo prima della loro sparizione, «archiviandoli» senza dimenticare nessun protagonista, paesaggio compreso e, naturalmente, il vino. Nella godalet dantza, si balla letteralmente sul bicchiere di vino, che mette alla prova l’abilità tecnica di tutti i personaggi centrali, poiché ognuno dovrà saltare con entrambi i piedi insieme sul bicchiere, rimanendo in equilibrio.
L’opera con cui il visitatore prende congedo dalla mostra e riassume le tradizioni basche, è pervasa da una luce pomeridiana, «una sfumatura cromatica che congela la danza suletina in un’immagine senza tempo. Ucelay ci offre una narrazione complicata e virtuosa: è il ritratto finale di una danza, che si perde nella lontananza, nella metafisica degli oggetti e dell’aria. È come un circuito circolare. Attraverso la sua pittura, il paesaggio, l’architettura, gli attrezzi agricoli, le danze, la complessità di un fenomeno d’epoca è passata ai raggi X di una società in mutamento. Non è lo sguardo dello scienziato qui a documentare. Ucelay assiste a un crepuscolo, questo passaggio da una nobiltà di villaggio e autentica alla perdita di un’epoca, che era stata scandita dalla campana della chiesa. Il suo è un inventario di un mondo in agonia».