Traballa un altro mito del calcio ucraino, il Chornomorets Odessa. I “marinai” nerazzurri sono a un passo dalla bancarotta, per un maxi debito di decine di milioni di dollari contratto dal 2011 ad oggi con la banca russa Sberbank. Era, è, la squadra del “Dyvo”, del “Miracolo”, l’ultima formazione ad aver trionfato – nel 1990 – nella Coppa delle Federazioni Sovietiche, competizione che scorreva parallela alla Coppa Urss, vinta quell’anno – guarda caso – dalla Dinamo Kiev. Un anno d’oro, calcisticamente parlando: i nerazzurri del Mar Nero, infatti, si aggiudicano il trofeo – riservato esclusivamente alle partecipanti del massimo campionato sovietico – in una finale “fratricida” contro il Dnipro Dnipropetrovsk.

Il calcio riflesso della società non è un luogo comune. In Ucraina è un concetto quanto mai concreto: da Euromaidan a oggi è stato un autentico stillicidio di fallimenti, sconfitte. Anzitutto umane: proprio a inizio mese, la triste ricorrenza dalla strage di Odessa, che contò 46 morti il 2 maggio 2014. A poche ore dal match di Prem’er-Liha tra Chornomorets e Metalist Kharkiv, le frange estreme delle due curve – tanto ultranazionaliste da far parte del Pravyi Sektor, la destra neonazista ucraina – si accordano per marciare insieme verso lo stadio manifestando la loro opposizione contro Yanukovich. Sul loro cammino incontrano i filo-russi ed è tragedia: ad essere preso d’assalto, il palazzo del sindacato, frequentato per la maggior parte da ucraini di origine russa. Si muore bruciati vivi, si muore come nei pogrom. Colpe che ancora oggi continuano a essere rimbalzate da est e ovest. Un nervo ancora terribilmente scoperto tanto che la città, nei giorni della ricorrenza, si presentava blindata, per timore della sete di vendetta.

Tra rabbia e debiti, il calcio ucraino sembra un film colossal improvvisamente messo in pausa: proprio nel momento in cui proprietà riconducibili ad affari più o meno leciti legati agli ultimi governi, si erano messi a riciclare con profitto nel calcio tutte le loro fortune. Così, improvvisamente, la sfera calcistica nazionale ha salutato diverse protagoniste di primo piano: sul finire del 2013 l’Arsenal Kiev, squadra simbolo dell’antifascismo ucraino. La società, nonostante la colletta di solidarietà messa a disposizione dalle squadre avversarie, fu costretta a dichiarare fallimento nel bel mezzo del campionato. Rifondata l’anno successivo, ora la squadra si barcamena in terza serie.

Dopo l’Arsenal è stata la volta del Metalurg Donetsk, club in mano a un altro oligarca e membro del parlamento ucraino – Sergey Taruta, presidente, tra l’altro dell’Unione Industriali – che un bel giorno ha deciso di disinvestire, facendo dichiarare bancarotta a un club che stava emergendo anche a livello continentale.

Da gennaio di quest’anno, poi, sono cominciate le “disgrazie” di un altro Metalurg: quello di Zaporizhya, da quel momento sempre sconfitto a tavolino, dopo essersi ritirato, anche qui, per via di dissesti finanziari irrimediabili. Ma Zaporizhya – città simbolo dell’architettura gotico-stalinista – ha saputo riorganizzarsi e imbastire una commovente forma di azionariato popolare che, attraverso la fondazione Metalurg forever, capeggiata dal proprietario di una pizzeria cittadina (il “Rosso Nero”, colori ufficiali del club), farà ripartire il club dalla seconda serie.

Ma non è tutto. Perché, in Ucraina, non spariscono improvvisamente solo i club di medio cabotaggio. Succede, alla stessa velocità, anche ai più grandi. Come il Dnipro Dnipropetrovsk, che esattamente un anno fa ha sfiorato il trionfo in Europa League dopo avere giustiziato il Napoli in semifinale. Ebbene, poche settimane or sono la Uefa ha deciso di revocare al club la licenza Uefa.

Com’è stato possibile? Semplice, il presidente miliardario Igor Kolomoisky ha deciso, dall’oggi al domani, di chiudere i cordoni della borsa. Motivo? Concentrarsi esclusivamente sul finanziamento di battaglioni volontari che combattono l’esercito filo-russo. Ex governatore dell’Oblast di Dnipropetrovsk, città a est del paese in cui si guarda abbondantemente verso Mosca, Kolomoisky è invece un forte sostenitore dell’unità nazionale. Personalità del mondo ebraico ucraino, è a capo di PrivatBank Group, che detiene i fondi delle industrie multinazionali di acciaio, petrolio e gas. Il suo patrimonio ammonta a ben 1,36 miliardi di dollari. Ma il calcio, ormai, non gli interessa più e, in un baleno, il Dnipro è passato dall’essere il felice orizzonte del calcio ucraino a un club allo sfascio con un totale di 1milione 742mila euro di debiti. La bancarotta, anche qui, è dietro l’angolo. E dire che Kolomoisky aveva fatto del Dnipro la propria bandiera, alla vigilia della finale contro il Siviglia.

Riecheggiano ancora, le sue parole, rilasciate al quotidiano online ua.tribuna.com subito dopo la semifinale contro il Napoli: «Oggi è stata la vittoria di un paese, mi congratulo con tutta l’Ucraina». Le ultime parole famose.

Tutto questo nel contorno dei campi neutri in cui le squadre dell’est ucraino si sono trovate a giocare. Il caso più eclatante, quello dello Shakhtar Donetsk, migrato a Leopoli, nell’estremo ovest dopo i bombardamenti a quel gioiellino della Donbass Arena. La domanda, però, è d’obbligo: possibile che non si sia trovata una location meno distante rispetto a quei 1.270 chilometri che il team arancionero deve percorrere ogni volta per “giocare in casa”? In realtà la scelta dell’Arena Lviv ha le sue brave compromissioni politiche ed è stata decisa personalmente dal presidente, il magnate Rinat Achmetov, uomo più ricco d’Ucraina (Forbes stima un patrimonio di 16 miliardi dollari), primo sostenitore morale e – soprattutto – economico del filorusso Viktor Yanukovich, su cui si scatenò la rivolta di Euromaidan. In qualità di privato, per rifarsi una “verginità d’immagine”, Achmetov ha scelto Leopoli come nuova casa dello Shakhtar, facendo passare il messaggio che l’Ucraina debba essere unica e indivisibile.

È andata che la Dinamo Kiev è tornata a vincere il campionato dopo anni di egemonia degli arancioneri, giunti però anch’essi in fondo all’Europa League (vinta, peraltro, nel 2009). Il tecnico Mircea Lucescu, che ha lasciato la panchina proprio in questi giorni per accasarsi allo Zenit San Pietroburgo, dopo una lunghissima militanza, ha plasmato – nel tempo – una formazione eccezionale, composta però essenzialmente da brasiliani. Lanciando, nel tempo, stelle come Luiz Adriano (oggi al Milan), Willian del Chelsea e tanti altri.

 

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Un soldato tiene in mano lo scudetto del Metalurg Zaporizhya

E il Chornomorets? La storia dei marinai, in realtà, è molto meno rilevante in ambito internazionale ma la loro impresa eroica del 1990 è e resterà nei libri di storia.

I prodromi di quello straordinario successo nella Coppa delle Federazioni Sovietiche erano già cominciati l’anno precedente, in cui i marinai conquistarono il sesto posto in campionato, ultimo posizione disponibile, ai tempi, per la qualificazione in Coppa Uefa. Ai trentaduesimi, eliminati i norvegesi del Rosenborg (3-1 a Odessa, sconfitta 1-0 a Trondheim). Ai sedicesimi, una resistenza accanita contro il più blasonato Monaco, che però deve contare sulla vittoria di misura (1-0) nel principato, visto lo stoico 0-0 dell’andata sul Mar Nero.

Era la formazione del rivoluzionario allenatore Viktor Prokopenko, primo commissario tecnico della nazionale ucraina.

Un gioco moderno, votato all’attacco, fondato sui giovani: quella squadra, lanciò talenti davvero importanti come Ilya Tsymbalar – nato e cresciuto a Odessa – centrocampista di talento che disputo con la Russia i Mondiali di Usa ’94 e che segnò contro l’Italia a Euro 2006 in quel match perso 2 a 1, fatale per il cammino degli Azzurri di Arrigo Sacchi. Personaggi di spicco, entrambi accomunati da un tragico destino: la morte per problemi cardiaci, che colpì Propkopenko nel 2007 all’età di 62 anni e Tsymbalar nel 2013 a soli 44. Elementi che, in qualche modo, resero ancor più leggendaria quella squadra del “Dyvo”, appunto, del “miracolo”. Che venne ripetuto, sull’onda di quel periodo d’oro: il Chornomorets, infatti, non solo fu l’ultima squadra a vincere la Coppa delle Federazioni Sovietiche ma anche la prima a vincere la Coppa d’Ucraina post indipendenza, nel 1992 e poi ancora nel 1994, ai rigori contro il Tavriya di Simferopoli, Crimea, prima formazione invece a vincerne il campionato.

Ora il Tavriya, insieme al Sebastopoli e ad altre sei squadre della penisola meridionale, gioca un campionato a parte, essendo stata negata dall’Uefa la richiesta di annessione ai campionati russi, avanzata due anni fa. Un limbo calcistico di dubbia utilità, fintanto che, in questo particolarismo campionato crimeano, non verranno riconosciuti posti nelle competizioni continentali.

Ora il Chornomorets arranca: fino a inizio 2014, il debito contratto con la Sberbank (40 milioni dollari nel 2011, per la precisione) procedeva con pagamenti regolari delle rate. Poi, la crisi e la svalutazione della Grivna.

Ora Mosca batte cassa e vuole chiudere in tempi brevi: il direttore generale nerazzurro Sergey Kernytskyi ha già depauperato la squadra con la speranza di vivacchiare con gli incassi del calciomercato. Intanto gli interessi aumentano, il tempo si accorcia e la salvezza ottenuta sul campo non basta.

Serve, appunto, un altro miracolo. Come del resto serve al resto del calcio ucraino, che spera in un sussulto d’orgoglio della propria nazionale agli Europei di Francia ormai alle porte.