A soli trentacinque anni, Diego Enrique Osorno è già considerato come uno dei più importanti giornalisti latinoamericani, grazie a decine di reportage e ad una mezza dozzina di libri nei quali ha raccontato i conflitti sociali e lo sviluppo del narcotraffico e delle culture criminali nel Messico dell’ultimo decennio. Protagonista del nuevo periodismo che mette insieme timbro narrativo e tecnica d’inchiesta, dice di ispirarsi al compianto Roberto Bolaño per cercare di creare un «giornalismo infrarealista» dove possano convivere realtà e immaginazione.
Dopo aver pubblicato nel 2013 il suo Z. La guerra dei narcos, dedicato al fenomeno dei Los Zetas, la casa editrice la Nuova frontiera ha proposto recentemente ai lettori italiani Un cowboy attraversa la frontiera in silenzio (pp. 122, euro 10,00), nel quale Osorno rende omaggio alla figura di suo zio, Geronimo Gonzales Garza, un vaquero sordomuto che dopo aver vissuto per decenni negli Stati Uniti, prima da clandestino e poi ottenendo la cittadinanza americana, era tornato a vivere nel nordest del Messico, nello Stato del Tamaulipas, proprio alla vigilia dell’escalation violenta che aveva segnato l’inizio delle guerre dei narcos.

La storia di Geronimo sembra una metafora della condizione di una parte del suo paese privato della propria voce dalla violenza criminale. Era questo il suo intento?

In parte sì. Era da quando andavo alle superiori che mi ero ripromesso di scrivere di questo mio zio cowboy che, quando ero piccolo, mi ha insegnato a seminare i campi, a «governare» le mucche, a guidare sulle strade dissestate di campagna. È stata una figura molto presente nella mia infanzia: ricordo che mandava la lana perché mia madre ci facesse i maglioni quando eravamo piccoli, ma spesso anche dei soldi per aiutare la mia famiglia quando non ce la passavamo tanto bene: è a lui che devo la possibilità di aver studiato e, forse, anche di aver scelto di fare questo mestiere. Ai miei occhi lui incarnava anche l’idea di trasferirsi negli Stati Uniti, che non esaurisce solo in una migrazione economica, ma significa anche un’idea del viaggio e dell’avventura: lui aveva conosciuto gli hippie, visto tante cose e persone diverse. Poi, certo, era tornato a vivere nella regione del Tamaulipas, aveva messo su un proprio ranch mentre nella zona cominciava ad imporsi la legge della violenza, quello che diventerà il dominio dei «Los Zetas». Ogni volta che lo andavo a trovare, lui mi spiegava a gesti di questi uomini armati di fucili d’assalto che pattugliavano la zona a bordo delle jeep, quasi fossero un esercito invasore e disseminavano di cadaveri i campi circostanti. Non era quello il Messico che immaginava di trovare al suo ritorno.

Il racconto del ritorno di suo zio le consente di descrivere anche le trasformazioni conosciute da questa zona di frontiera, spesso attraversata dai migranti che cercano di raggiungere gli Usa. Qual è la situazione?

In questo libro la violenza è onnipresente, anche se non descrivo praticamente nessun fatto di sangue. Questo perché mi sembrava importante dar voce alle vittime, ma farlo senza raccontare della loro sofferenza di oggi, quanto piuttosto dare spazio alle loro traiettorie di vita, spiegare come le cose sono giunte fino a questo punto. Il Tamaulipas è sempre stato caratterizzato da una cultura delle violenza, le tradizioni popolari del luogo non si rifanno all’eredità di Maya e Aztechi come nel resto del paese, bensì al Texas e alla sua lunga storia di massacri compiuti lungo la linea instabile della frontiera dai vigilantes e gli avventurieri che arrivavano dagli Stati Uniti. Oggi, a tutto questo si è aggiunta la violenza «istituzionalizzata» dei cartelli criminali di cui sempre più spesso sono gli immigrati a fare le spese. Inoltre si tratta di una regione dove l’istruzione è poco diffusa, dove ci sono poche scuole e l’intera vita sociale ha preso forma intorno alle attività economiche: prima l’allevamento del bestiame, quindi l’estrazione di petrolio o del gas di scisto. È un universo selvaggio dominato dall’individualismo e dalla voglia di fare soldi a qualunque costo.

Il giornalista americano Charles Bowden, in un libro dedicato a Ciudad Juarez – la città messicana che detiene il record internazionale di omicidi – ha utilizzato una formula scioccante, parlando della zona del confine come i «nuovi campi di sterminio dell’economia globale». La realtà del Tamaulipas è paragonabile a tutto ciò?

Per molti versi, Ciudad Juarez incarna il laboratorio urbano di questo massacro che si compie nel nome del capitalismo, il nord-est messicano ne rappresenta il volto rurale. Si tratta di una zona dove si calcola che solo negli ultimi siano state ammazzate e quindi seppellite clandestinamente, in enormi fosse comuni, oltre 20 mila persone, per lo più migranti caduti nella rete dei narcos o vittime delle continue guerre tra i cartelli criminali che dominano la zona. Qui l’economia illegale e quella ufficiale finiscono spesso per intrecciarsi, al punto che sarebbe difficile immaginare che si possa affrontare la presenza crescente dei narcos come un’esclusiva questione di polizia: si tratta prima di tutto di un problema sociale.