C’è voluta una pandemia per costringere Pristina e Belgrado alla collaborazione. Non tutto è filato liscio, ma l’alternativa era la potenziale esplosione del contagio tra le comunità serbe del Kosovo.

La dualità è uno dei motivi per cui la situazione rischiava di andare fuori controllo. Dualità, ossia la sovrapposizione di due sistemi statali paralleli, uno serbo e uno kosovaro, sullo stesso territorio. Un mostro a due teste maggiormente evidente proprio in ambito sanitario. Quando il covid si è affacciato in Kosovo, i due sistemi hanno risposto ai rispettivi governi: diversi interventi, statistiche, misure di contenimento. Così, fino a quando la situazione nel Kosovo del nord, a maggioranza serba, non è precipitata.

La tregua è stata raggiunta sul ponte di Mitrovica, città simbolo delle divisioni etniche in Kosovo. Da una parte il sindaco serbo di Mitrovica nord, Goran Rakic, dall’altra quello albanese di Mitrovica sud, Agim Bahtiri. A suggellare il patto Michele Risi, comandante della missione Nato in Kosovo (Kfor). Un incontro simbolico per lanciare un appello ai cittadini delle due sponde per vincere insieme questa battaglia. È stato l’inizio di una collaborazione incerta, a volte taciuta, spesso strumentalizzata che ha avuto però il merito di frenare il contagio.

«Il problema della dualità esisteva prima dell’emergenza sanitaria, spiega Senad Sabovic, capo del dipartimento affari politici della missione Osce in Kosovo. Pristina poteva scegliere: forzare la mano o riconoscere la situazione di fatto e collaborare con le autorità serbe. Albin Kurti (premier kosovaro uscente, ndr) è stato pragmatico e ha preferito la seconda. Quella del coronavirus non è una crisi che permette margini di errore».

Si sono aperti dei canali di comunicazione facilitati dalla Kfor e dalla Farnesina che ha organizzato una videoconferenza tra il ministro della Salute serbo, Zlatibor Loncar e l’omologo kosovaro, Arben Vitia, un passo importante per migliorare la gestione dell’emergenza. «Sono stati creati dei corridoi per far passare il personale medico dalla Serbia e consentire la fornitura di alimenti, medicine e dispositivi sanitari, prosegue Sabovic. I due sistemi sono stati integrati quanto più possibile, soprattutto sotto il profilo del tracciamento dei contagi. I pazienti poi sono liberi di scegliere se curarsi in Kosovo o in Serbia, il che accade la maggior parte delle volte, specie quando presentano sintomi gravi».

Ma non a tutti è piaciuta questa collaborazione. Di sicuro non al presidente della Repubblica Hashim Thaqi che ha accusato il premier, il nazionalista che anela (o anelava) alla riunificazione del Kosovo con l’Albania, di lasciare il nord del Kosovo in balìa delle indebite ingerenze della Serbia.

Accuse che in questo contesto hanno contribuito solo ad aumentare la rabbia dei cittadini che vedevano per l’ennesima volta i propri interessi sacrificati all’altare dei soliti giochi di potere. È il segno più tangibile della fragilità della vecchia guardia. I «Signori della guerra», spazzati via dal voto dello scorso ottobre, hanno cercato di sfruttare le contraddizioni del presente per riportare il Paese al suo passato. Ma Kurti non ha ceduto e ha chiesto a tutti, albanesi e serbi, di mantenere la calma «per non cadere nella trappola di chi, a Pristina come a Belgrado, vorrebbe un conflitto nel nord».

La tregua però è evaporata al rallentare del contagio. Mercoledì scorso a venti medici e infermieri serbi è stato impedito l’ingresso in Kosovo a causa di un «mandato poco chiaro». Passata o quasi l’emergenza, si ritorna ai vecchi rancori. Mentre il presidente serbo Aleksandar Vucic guarda alle elezioni del prossimo 21 giugno, Kurti, sfiduciato dopo 51 giorni di governo, aspetta il verdetto della Corte costituzionale che deciderà se andare a elezioni anticipate, come da lui auspicato, o se acconsentire alla formazione del nuovo governo, come vorrebbero i Signori della guerra.

La posta in gioco è l’accordo di scambio di territori che Washington vuole concludere entro l’anno, e con esso l’amnistia dei crimini di guerra. E a quel punto non ci sarà tregua che tenga.