Quando c’è crisi non si deve badare a spese. Sembra una contraddizione in termini, ma in economia funziona così. I disavanzi del settore pubblico devono intervenire copiosamente per compensare la caduta della spesa privata. Ed è quello che sta succedendo in questi mesi, un po’ ovunque nel mondo. In Italia, dopo anni di morigeratezza del nostro costume finanziario, abbiamo scoperto che i soldi si possono sempre trovare all’occorrenza, anche perché lo Stato, checché se ne dica, non è «come una famiglia».

Perfino durante l’ultima grande crisi del decennio scorso abbiamo sentito dire che i soldi erano pochi e che la tenuta dei conti pubblici veniva prima del soddisfacimento dei bisogni sociali. Il risultato è stato che un pugno di affaristi si è arricchito a dismisura, mentre la maggioranza della popolazione ha visto peggiorare sensibilmente la propria condizione materiale di vita. Milioni di persone, insomma, sono entrate nella nuova crisi con le ferite ancora aperte di quella precedente.

Ma torniamo ai soldi che d’incanto si sono materializzati in questo periodo (ci sarebbe molto da dire sul loro impiego, ma non è questa la sede). Tre manovre in sei mesi per un valore di oltre 100 miliardi di euro; deficit di bilancio che, complice anche la caduta del reddito nazionale, va verso il 13% del Pil; debito pubblico che sfonda la soglia dei 2500 miliardi di euro (proiezione a fine anno tra i 2.547 e i 2.577 miliardi, 160-170% del prodotto lordo), senza la contabilizzazione dei nuovi prestiti europei (Recovery fund, eventualmente il Mes, Sure se partirà ).

Un quadro di finanza pubblica nel quale balza agli occhi anche l’impennata del fabbisogno statale, salito a 100 miliardi nel mese di luglio, come da ultime stime della Ragioneria Generale dello Stato. +241% rispetto allo stesso periodo del 2019. Questo perché da inizio anno, e fino a giugno, gli incassi sono diminuiti del 9,2% e i pagamenti sono aumentati del 16,1%.

Dove non poterono le piazze spagnole, greche e portoghesi nel decennio scorso, poté il coronavirus. E meno male, potremmo dire. Forse, dopo la fine della pandemia, sarà più semplice dimostrare la natura ideologica e di classe dell’austerità. O, almeno, è quello che ci si augura.
Nel frattempo, si dovrebbe ragionare su una soluzione globale al debito europeo. Lo Stato non è «come una famiglia», dicevamo. Quindi, a maggior ragione, può gestire con più flessibilità i propri debiti, evitando che il peso della loro sostenibilità ricada per intero sulle spalle dei ceti popolari.

Beninteso, le politiche ultra-espansive della Bce hanno reso meno oneroso il servizio del debito in questi anni e ci tengono al riparo da assalti speculativi. Ma non basta. E’ stato stimato che nel quadriennio 2019-2022 il nostro Paese dovrà pagare la bellezza di 300 miliardi di euro di interessi sul proprio debito. O forse anche più. Davvero pensiamo che, passata la pandemia, potremo caricare sui cittadini, oltre a questa subdola tassa, il peso di un risanamento monstre per ritornare nei ranghi del patto di bilancio? Ancora meno spesa pubblica corrente rispetto al livello corrente di raccolta fiscale?

Siamo in Europa, c’è bisogno di una soluzione europea. Come è noto, nei Trattati viene fissata una soglia massima per quanto riguarda il rapporto debito/Pil: 60%. La Bce dovrebbe comprare tutto il debito degli Stati della zona euro in eccedenza rispetto a questa soglia e trasformarlo in titoli a lunghissima scadenza (40-50 anni) o, addirittura, perpetui, che non scadono mai. Nessuno pagherebbe i debiti per gli altri, ma tutti beneficerebbero di un alleggerimento delle scadenze e quasi tutti godrebbero di tassi inferiori a quelli di mercato o pari a zero, nel caso si scegliesse la strada dei perpetual bond.

Per l’Italia, questo significherebbe non rifinanziare qualcosa come 1300-1400 miliardi di euro di debito, con un recupero di spesa per interessi nell’ordine di oltre 20 miliardi all’anno. Ossigeno, maggiore stabilità. Fuori dall’Europa, di questi tempi, sarebbe stata molto dura per un Paese come il nostro. Ma l’Europa può fare molto di più. Lo consentono i suoi fondamentali macroeconomici e la credibilità delle sue istituzioni. Con la pandemia alcuni santuari sono caduti, ora si tratta di spingere più avanti