La prima vittima del Covid-19 fuori dall’Asia è stata registrata ieri in Francia, all’ospedale Bichat di Parigi. Si tratta di un ottantenne di nazionalità cinese giunto in Francia il 23 gennaio. «Il suo stato si era rapidamente deteriorato e da diversi giorni le sue condizioni erano critiche», ha detto il ministro della Sanità francese Agnès Buzyn. In Francia, i casi di nuovo coronavirus sono stati finora undici, sei dei quali sono ancora in isolamento.

IL FOCOLAIO DI INFEZIONE più grave al di fuori della Cina è sempre la nave da crociera Diamond Princess nel porto giapponese di Yokohama, in cui le persone contagiate sono ormai 285 (67 casi registrati ieri). La decisione di imporre una quarantena in nave ai 2600 passeggeri e ai 1100 marittimi è stata ritenuta inopportuna da molti esperti, ma finora non dai governi per il timore di dover rimpatriare persone potenzialmente contagiate. Ieri il governo degli Usa è stato il primo a cambiare idea annunciando il rimpatrio dei 380 passeggeri statunitensi. Ora anche il ministro degli Esteri Di Maio sta valutando l’operazione. Lo ha dichiarato a Pratica di Mare dove ha accolto Niccolò, il 17enne di Grado finora bloccato a Wuhan.

MENTRE SEMBRA SBLOCCARSI la situazione sulla Diamond Princess, un’altra nave da crociera, la Westerdam, rischia di trasformarsi in una trappola per i 1400 passeggeri e 800 membri dell’equipaggio. Dopo essere stata rifiutata da Filippine, Giappone, Corea del sud e Thailandia per paura di eventuali contagi, la nave ha iniziato venerdì lo sbarco dei passeggeri nel porto cambogiano di Sihanoukville, una complessa operazione che richiederà almeno 3 giorni. Una delle turiste sbarcate, una donna statunitense di 83 anni, è risultata positiva al test per il coronavirus ieri, all’arrivo in Malesia. Si teme che a bordo della nave il contagio fosse già iniziato. La decisione di chiudere i porti di Giappone, Hong Kong e Thailandia ha accontentato le opinioni pubbliche locali ma ha scaricato il rischio su un paese più vulnerabile come la Cambogia.

Solo ieri in Cina altri 2600 casi e 143 morti sono stati confermati, ma il tasso di crescita non sembra più esponenziale. Fuori dall’Hubei il numero di nuovi casi è addirittura calato a 221, un quarto rispetto a dieci giorni fa. Tuttavia, il cambiamento nel conteggio dei casi, che ora possono essere confermati anche sulla base di una radiografia toracica, il 12 febbraio ha fatto schizzare i numeri di 15 mila unità. E ha rinfocolato i dubbi sulla trasparenza dei dati trasmessi dalla Cina, dando fiato alle peggiori teorie del complotto.

ANCHE RICERCHE SERIE, come quelle del Centro per l’analisi globale delle malattie infettive globali dell’Imperial College di Londra, suggeriscono in effetti che le infezioni siano molto più numerose. Ma come racconta la trentina Ilaria Dorigatti, che guida il gruppo che ha realizzato le ricerche, non si tratta di dati insabbiati dalle autorità. «Le nostre analisi suggeriscono che i dati ufficiali sottostimino di circa 20 volte il numero reale di infezioni. Questo è dovuto al fatto che nella provincia di Hubei fino a pochi giorni fa solo i ricoverati più gravi venivano testati. Le nostre stime catturano uno spettro clinico più ampio e includono infezioni sintomatiche e asintomatiche, tipicamente meno severe».

SE IL NUMERO DI INFETTI è maggiore, allora la proporzione tra morti e ammalati diventa più favorevole. «Nel nostro ultimo rapporto stimiamo una probabilità dell’1% che una persona infetta possa morire a causa dell’infezione – spiega Dorigatti -. Queste stime sono state ottenute con modelli statistici che combinano dati sulle morti e le guarigioni osservate in Cina e tra i casi dei viaggiatori riportati dai vari paesi. I modelli tengono conto del ritardo tra la comparsa dei sintomi e la guarigione o la morte, del fatto che non conosciamo il decorso dell’infezione per la maggior parte dei casi recenti e che il numero di casi sta crescendo».