Questo 2020, che era iniziato sotto un senso di imminenza della catastrofe ecologica acuito dai vasti incendi in Australia, dopo i fuochi in Siberia e Amazzonia, e poi il 3 gennaio con l’assassinio, ordinato da Trump, del generale iraniano Soleimani, foriero di tristi presagi su larga scala, aveva già fatto un salto vertiginoso verso febbraio – distinguendosi dagli anni precedenti – portandoci la «pandemia del secolo», all’inizio vista come un contagio misterioso da una remota provincia cinese di un virus polmonare cui sarebbe stato dato il nome di Covid-19.

E la pandemia, con i suoi 36 milioni di casi accertati e più di un milione di decessi ufficiali e che sarà quest’anno la prima causa di morte per malattie trasmissibili nel mondo, ha già tinto il 2020 di un senso di destino tragico, annichilendoci, rimpicciolendo ogni altra preoccupazione fino a farla apparire insignificante.

Eppure, la spirale non sembra arrestarsi e quest’anno pare non voler finire (di sorprenderci). E se apocalisse – rivelazione – doveva essere, questa è. «Guasto è il mondo, e preda di febbri affrettate, ove la ricchezza si accumula, e gli uomini rovinano» (Oliver Goldsmith), citava il buon Tony Judt nel suo ultimo libro (2010) a lamentare come la cieca ricerca del profitto ci aveva fatto entrare in una «età della paura». La paura non solo che «noi non possiamo dar forma alle nostre vite, ma che coloro che hanno l’autorità per dar forma alle nostre vite abbiano perso il controllo di fronte a forze oltre la loro portata».

La parabola di Trump, e il suo stesso restare vittima di un virus che aveva negato, se qualcosa poteva indicare, ci mostra una volta di più la spirale che non ha fondo, la rivelazione implacabile che questo anno senza fine ci abbandona a questa età dell’ansia e della paura. Neppure delle nostre autorità ci possiamo fidare.

Le cronache ci raccontano un’America allo sbando, ma anche un’Europa non meno incerta. Un popolo che si muove infantilmente senza supervisione degli adulti, tra desiderio di «libertà» e illusione che tutto passi, che non è poi così grave. Non solo il nostro rapporto con la pandemia, in Spagna come in Francia come nel Regno Unito. Non solo in paesi governati da autocrati (Modi), negazionisti (Bolsonaro) o sigillati nella loro bolla (Putin) o improvvisati condottieri in nome della libertà (Johnson).

Il contagio non rallenta, l’economia va a rotoli e non ci vogliamo pensare, il pianeta sta diventando inabitabile e non facciamo nulla. Un senso di inevitabilità della catastrofe pare essersi diffuso tanto forte – «persino l’America non ha saputo fermare la pandemia» – quanto l’ansia che ci attanaglia, alimentando complottismi e negazionismi, parossismi vitalistici e paranoie sanitarie. Perché dietro quell’ansia c’è il vuoto della politica, l’incapacità delle classi dirigenti di dare risposte.

Per i tanti che avevano lodato la superiorità della democrazia statunitense – con i suoi «pesi e contrappesi», la più antica e solida del mondo – l’America del 2020 vede esplodere tutte le sue contraddizioni ad un tempo: il vizio suprematista, fondante la divisione razziale e prim’ancora anglo-sassone di un paese cresciuto sugli immigrati; il capitalismo delle élite, tornato selvaggio con disuguaglianze da «età dell’oro»; il degrado ambientale, manifesto negli incendi dell’Ovest e negli uragani; un sistema elettorale barocco; una corte suprema «medievale», con giudici nominati a vita dalla politica; una politica fondata sulle lobby delle corporations e persistenti ossessioni; un sistema economico iniquo e pur «dinamico», grazie alla competizione sui salari e la flessibilità e al suo «classismo».

L’America perno della civiltà «occidentale», in ragione delle sue contraddizioni, è così scivolata nel suo contrario, portando a manifestarsi la possibilità della negazione di quella stessa democrazia. Con malapropismo, già prima del Covid si poteva auspicare un ritorno alla «normalità», liberandosi della «tossina» Trump. Ma non è più tempo di sola «decenza», ora si parla di sopravvivenza.

Malato è il mondo che oggi, per far fronte alla pandemia del secolo – che pure ancora non eguaglia quella di solo cent’anni fa – chiude gli occhi sperando che tutto finisca. Perché, certo, non possiamo ora occuparci di emissioni o diritti umani, quando ben altri problemi ci assillano. Eppure, nel letargo ansioso in cui siamo caduti – anche noi, qui, con le nostre piccole preoccupazioni su Salvini e i 5 Stelle, sul Mes e il Recovery Fund, sulla tenuta della coalizione giallorossa – dovremo pur occuparci di quei 50 miliardi di reddito italiano perduto (Istat), di quei miliardi che le manovre governative hanno solo tamponato, di quei posti di lavoro persi, di quei disoccupati che non troveranno (mai) più un lavoro, di quei divari che continueranno a crescere. Perché «era la normalità il problema».

Non è solo l’economia a disgregarsi, anche le società possono collassare. Ma, «non c’è disperazione senza un po’ di speranza» (Pasolini). Il XXI secolo, cominciato con l’attacco alle Torri Gemelle e le disastrose «guerre al terrore» che hanno solo portato caos e miseria, non termina con questo 2020 senza fine. L’anno della grande pandemia potrà chiudersi con la fine dell’era Trump e il «rewind» a prima della pandemia, quando ricomincerà la lotta di sempre.