Il cotone è una risorsa naturale rinnovabile, ma il futuro della sua produzione è sempre più vulnerabile a causa di gestioni ambientali improprie, di condizioni di lavoro discutibili e di mercati molto instabili. Quando si parla di cotone non si può prescindere dai tanti impatti ambientali, sociali ed economici che esso genera.

Si pensa che il cotone sia puro e naturale, dato che proviene da una pianta: la verità è che c’è ben poco di puro o di naturale nel cotone tradizionale. Ogni anno vengono riversate sui campi migliaia di tonnellate di sostanze chimiche: gli impatti negativi sull’ambiente includono la riduzione della fertilità dei suoli, la loro salinizzazione, la perdita di biodiversità, l’inquinamento delle acque, i problemi che derivano dall’uso smodato di pesticidi e fertilizzanti e la veloce diffusione del cotone Ogm.

A QUESTI IMPATTI SI aggiunge lo sfruttamento della manodopera minorile. La povertà costringe i bambini a raccogliere cotone per coprire le spese di sussistenza familiare o per ridurre i rischi di indebitamento derivanti dalla perdita dei raccolti.
Gli impatti economici non sono certo da trascurare. La fluttuazione del prezzo internazionale del cotone, dovuta all’assenza di politiche internazionali di gestione della domanda-offerta (che ha fatto della Cina un paese colonizzatore) e alle politiche di dumping (portate avanti soprattutto dagli Stati Uniti), hanno peggiorato notevolmente la situazione economica di molti paesi, specie di quelli a sud del mondo. In questo scenario internazionale, non sono tutti uguali: paesi come il Mali o l’Uzbekistan non possono competere con colossi come la Cina, che detta il prezzo del cotone e acquista quasi tutto il cotone mondiale. Il mercato del tessile è infatti dominato da quei pochi che domandano e non da quelli che offrono. Il nuovo colonialismo, messo in atto dalla Cina, sta riducendo i paesi a sud del mondo a semplici fornitori di cotone a basso costo e sta negando loro il diritto allo sviluppo.
LE TIPOLOGIE DI COTONE SONO innumerevoli: il cotone americano, raccolto meccanicamente, non ha l’eccellenza della fibra africana raccolta a mano o del morbidissimo e luminoso Pima peruviano, ma offre ai suoi clienti una qualità ben definita a un prezzo minore e un tipo di fibra che i consumatori si aspettano. Pertanto, i piccoli imprenditori dei paesi africani rimangono schiacciati da questa richiesta del mercato internazionale e non riescono a vendere il loro cotone, che viene acquistato dalla Cina.
Ma c’è un’altra questione fondamentale. Nel contesto dell’economia globale, l’obiettivo di creare un legame tra un capo di abbigliamento e il suo luogo di produzione appare ambizioso poiché le varie fasi di lavorazione sono frammentate in più stati. Anche il Made in Italy sconta questa difficoltà, quando pensa che sia sufficiente confezionare un abito entro i confini per garantire gli interessi dell’industria nazionale. Le industrie che sgranano sono spesso geograficamente lontane da quelle che filano e da quelle che realizzano i capi di abbigliamento; in più, i calendari dell’industria non combaciano con quelli dell’agricoltura.

Gli effetti ambientali e sociali connessi alla delocalizzazione delle attività più inquinanti nei paesi in via di sviluppo sono quindi pesantissimi per questi paesi. Invece le multinazionali del tessile e dell’abbigliamento ci guadagnano: aiutate da minori costi di manodopera e da normative ambientali meno stringenti, hanno tutti gli interessi a spostare la loro produzione nei paesi in via di sviluppo.
In tutto questo, i consumatori hanno ben poco da guadagnare: informazioni come quella sull’origine geografica di un prodotto, individuate con criteri discutibili, rischiano di tradursi in un inganno insidioso.

LE QUESTIONI LEGATE AL COTONE hanno una matrice globale e, oggi, nessun paese è in grado di risolverle in autonomia: pertanto, nessun governo può agire al di fuori di una responsabilità comune. Risulta quindi necessaria la massima collaborazione tra tutti gli attori coinvolti: consumatori, organizzazioni internazionali governative e non governative, sindacati, governi e multinazionali, affinché l’azione congiunta possa apportare benefici concretamente tangibili.

In uno scenario simile, il cotone biologico potrebbe rappresentare la soluzione, grazie anche alle sue ottime rese. Il cotone biologico è associato a una serie di punti di forza. Minori rischi ambientali, prima di tutto. I coltivatori di cotone biologico, non facendo uso di pesticidi e di fertilizzanti sintetici, si concentrano sulla rotazione delle coltivazioni per aumentare le rese, sull’abbinamento del cotone ad altre colture alimentari da destinare al mercato locale e sull’uso di piante associate per attirare gli insetti utili e allontanare i parassiti. I coltivatori, impiegando solo concimi organici e rimedi biologici, favoriscono una maggiore biodiversità e una maggiore resilienza dei loro terreni. Inoltre, non utilizzando grandi quantità di acqua e non acquistando più pesticidi e fertilizzanti aumentano considerevolmente le loro entrate. Poiché i semi sono naturali e non modificati geneticamente, gli agricoltori sono in grado di recuperarli e ripiantarli, mentre nel caso delle coltivazioni Ogm sono costretti ad acquistarne di nuovi ogni stagione. Inoltre, le superfici destinate al biologico sono in continua espansione e la produzione di cotone è di qualità superiore a quella del cotone tradizionale: a livello di resa, dopo 4-5 anni, la coltivazione biologica ottiene livelli di produzione comparabili a quelli dell’agricoltura con­venzionale. E ancora: le condizioni di lavoro sono dignitose per tutti (chi si dedica al biologico lavora per la sua terra, per la costruzione di abitazioni e di comunità, per l’integrazione degli insediamenti e cerca anche di risolvere i problemi di povertà e di disuguaglianza sociale). Infine, la coltivazione di cotone biologico stimola la ricerca di nuove strade di sviluppo e di diverse forme di imprenditoria sociale, riequilibrando le distorsioni di un mercato sempre più globale e disattento all’essere umano.

VA DETTO CHE IL COTONE BIOLOGICO non è esente da punti di debolezza, anche se limitati nel tempo: i primi raccolti si ottengono dopo tre anni, c’è molta confusione provocata da un eccesso di marchi che disorienta il consumatore, e i costi di produzione per i primi quattro-cinque anni sono più elevati. Però la qualità è maggiore: infatti, un indumento in cotone biologico si presenta molto più durevole e confortevole rispetto a quello in cotone normale o Ogm. All’estero, il cotone biologico è più diffuso ed è più ricercato. In Italia siamo ancora a livelli pionieristici, anche se si sta diffondendo l’organic cotton su larga scala e a prezzi contenuti. Alcune multinazionali del low cost propongono t-shirts in organic cotton a 10-15 euro. Ma com’è possibile trovare sul mercato una maglietta in cotone bio a prezzi così bassi? In genere, la fibra organica viene messa sul mercato a 20-25 euro. La lavorazione di cotone implica materiali e tecnologie che richiedono almeno la produzione di un migliaio di pezzi. Probabilmente, queste multinazionali, producendo dai 10 mila ai 50 mila pezzi, riescono ad abbattere questi costi di base.

ESISTE UN DATO INCONFUTABILE: attualmente, la produzione mondiale di cotone biologico è inferiore all’1% del totale. Siamo arrivati a un vicolo cieco? Siamo condannati a vivere tra l’utopia del cotone biologico e il cotone convenzionale che avvelena i terreni eliminando la biodiversità? Il cotone sostenibile è una coltura in divenire poiché è influenzato continuamente dai miglioramenti e dalle nuove conoscenze. Già solo pensare a una coltivazione esente da sostanze nocive per l’ambiente, già solo ipotizzare condizioni di lavoro più eque, già solo immaginare una nuova commercializzazione in grado di correggere le distorsioni del mercato dovrebbe spingere anche il più scettico a orientarsi verso una coltivazione più sostenibile.