Un fulmine a ciel sereno che ha spiazzato media e commentatori politici. Come è noto, la vittoria di Donald Trump non ha solo sorpreso i più, ma è stata letta come una sorta di tempesta perfetta scoppiata nel cuore stesso della società americana. E se non fosse così? Se il successo del palazzinaro newyorkese, attraverso il quale si sono espresse anche la collera e il risentimento montanti in una classe media dimenticata da sondaggisti e opinion maker, rappresentasse in realtà l’esito tutt’altro che imprevedibile degli archetipi culturali che sovrintendono alla storia del paese fin dalla sua fondazione?

È questa la tesi suggestiva sviluppata da Emiliano Ilardi e Fabio Tarzia in Trump, un «puritano» alla Casa Bianca (manifestolibri, pp. 78, euro 8. Il libro sarà presentato oggi a Roma alla Libreria Assaggi, Via degli Etruschi 4, ore18.30) che fin dal titolo evoca come la figura del nuovo presidente risponda ad «istanze presenti assai in profondità negli abissi dell’immaginario americano».

QUALI SIANO queste istanze è presto detto, si tratta delle due caratteristiche peculiari alla vicenda storica statunitense, vale a dire quella di un paese appunto puritano che vede la frontiera un orizzonte da conquistare. Temi che Ilardi e Tarzia hanno già indagato in modo approfondito in Spazi (s)confinati (manifestolibri), testo da cui l’indagine su Trump prende implicitamente le mosse.

Se la cultura americana si fonda per certi versi sull’intreccio tra il credo nella predestinazione del proprio popolo, sulla base del «contratto» tra Dio e i suoi eletti di cui erano portatori i pellegrini protestanti sbarcati fin dal 600 sulle coste nelle Nuova Inghilterra, e la convinzione che proprio quel territorio da esplorare e colonizzare, in base ad una distinzione anche spaziale tra il bene e il male come impararono a loro spese le popolazioni autoctone, rappresentasse la Terra Promessa, la campagna elettorale di Trump sembra aver incarnato a giudizio dei due autori una sorta di puritanesimo laicizzato, paranoico e poliziesco.
E QUESTO PERCHÉ la sua affermazione arriva a compimento di una lunga fase in cui «la percezione della fine di uno spazio vuoto delle opportunità sempre disponibile per la mediazione di ogni conflitto, per l’integrazione di tutte le etnie, per la realizzazione di ogni desiderio e utopia produce nella cultura americana una sorta di ansia continua». Da tempo l’immaginario americano si misura infatti con la fine della frontiera, reale o traslata nella «missione» internazionale di americanizzazione del mondo, anch’essa parzialmente andata in crisi negli ultimi anni.

In questo contesto, quella che si è espressa nei consensi andati a Trump è «un’America un po’ surreale che in mancanza di spazio da conquistare prova la riconquista di se stessa, prova a ri-americanizzarsi isolandosi almeno parzialmente dal mondo». Un paese in cui la caccia alle streghe di Salem, proseguita con il maccartismo e la lunga stagione della Guerra Fredda, si trasforma nella denuncia del «male» che si è insediato a Washington, o nella stigmatizzazione dei nuovi immigrati. Così, nella sua funzione di «giustiziere» in lotta per il «bene», Trump vuole «rimaterializzare l’economia (industria pesante)» e «ri-territorializzarla contro le derive globali dei colossi dell’informatica», «ricostruire o ritrovare un’identità americana fabbricando dei muri identitari diversi da quelli imposti dalla globalizzazione», a cominciare da quello al confine con il Messico, il cui annuncio è diventato il simbolo della sua vittoria.

MOLTI AMERICANI, concludono perciò Ilardi e Tarzia, hanno «visto in lui non l’uomo nuovo (come pensano i principali commentatori e politologi), ma un personaggio tutto sommato famigliare, un giustiziere-supereroe che proviene dagli abissi della storia nazionale per risolvere i problemi, addirittura un discendente di quei primi Padri pellegrini a cui si deve la scintilla della grandezza americana futura».