Dove se n’è andato Eugenio Carmi due giorni fa? In quale altro universo, pianeta o dimensione parallela continua ancora a fabbricare la sua arte e le sue immagini, a sognare di un mondo più bello e per questo migliore, con chi se la sta prendendo, contro quelle derivate impazzite della finanza e dell’economia che governano e uccidono l’estetica e l’umanità? Eugenio è sempre stato così: un «piccolo principe» della storia dell’arte, che ha vissuto e lavorato immaginando il futuro. Non era credente, ma al mistero, alle casualità non casuali ci credeva eccome. Era solo l’11 febbraio, quando sono andata a trovarlo a Lugano: mi ha raccontato di nuovo del suo numero magico, il 17, la data del suo compleanno e la data che aveva scelto per la sua eutanasia. «Quando sono nato, il 17 febbraio 1920, non urlavo e non piangevo come tutti gli altri bambini. La levatrice ha detto che ero nato morto, ma mio padre – che quel giorno era a casa – non le ha creduto, ha chiesto due bacinelle d’acqua, una calda, una fredda, e mi ha immerso ora nell’una ora nell’altra fino a quando non ho cominciato a strillare come un’aquila».

E che dire della copertina del catalogo Skira per la mostra Eugenio Carmi, Speed Limit 40 a Palazzo Ducale di Genova un anno fa, quando la sua città natale gli ha reso omaggio con una bellissima antologica con più di 100 opere dagli anni ’40 al 2013? Per la copertina aveva scelto quella foto del 1965 negli Stati Uniti, dove se ne sta abbracciato al cartello indicatore della città Carmi, nell’Illinois, e a quello che mostra il limite di velocità, 40 appunto. «Non ho ancora capito se facesse più impressione a me vedere il nome Carmi in tutta la città, o se invece, con un Carmi a Carmi, i cittadini fossero ancora più colpiti di me. Da veri americani, chiamarono subito il quotidiano Carmi Times per un’intervista».

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Un’altra delle tante casualità non casuali della sua vita. Come quando lo chiamò Gian Lupo Osti, trasferito da Milano all’Italsider di Genova: non si conoscevano ancora, ma Osti gli diede carta bianca per creare l’immagine dell’azienda. «Una coincidenza, se Osti fosse rimasto a Milano io chissà cosa avrei fatto». Invece ha fatto meraviglie all’Italsider, un centro di incroci planetari di artisti e nuove idee.
La sua storia di artista è esattamente questo: movimento e comunicazione, una tensione del fare e dire inesauribile, incontenibile, inarrestabile. Dalla pittura figurativa a quella astratta, dalla grafica all’illustrazione, dalle latte agli arazzi, ai libri, alle fotografie, ai filmati, agli oggetti, alle sculture, e tanto altro. Un entusiasmo incrollabile di percorrere le strade dello stupore.
Eugenio Carmi «piccolo principe» o «cosmonauta», da quella storia bellissima che avevano creato insieme, lui e Umberto Eco (I Tre Cosmonauti per Bompiani, 1966). «Il cosmonauta si chiamava così perché partiva per esplorare il cosmo: e cioè lo spazio infinito coi pianeti, le galassie e tutto quello che sta intorno. I cosmonauti partivano e non sapevano se sarebbero tornati. Volevano conquistare le stelle, in modo che un giorno tutti potessero viaggiare da un pianeta all’altro, perché la Terra era diventata troppo stretta e gli uomini crescevano di giorno in giorno».
Anche Eugenio ha sempre voluto conquistare il mondo, ma con la bellezza perché la bellezza è armonia, è etica. Cosa altro sono i suoi cartelli antinfortunistici per Italsider della metà degli anni 60 se non un mix perfetto di etica ed estetica? Talmente anticipatori da essere ancora oggi pionieristici. E le sue onomatopee per la voce di Cathy Berberian in Stripsody non nascono forse, in primo luogo, dal suo desiderio di alfabetizzare linguaggio e musica per tutti? E ancora la Galleria del Deposito a Boccadasse, nel 1963: una cooperativa che doveva produrre opere grafiche e multipli a prezzi accessibili.

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Poi ci sono la luce e il colore dei suoi triangoli, dei suoi quadrati e soprattutto dei suoi cerchi. I cerchi magici della sua pittura, che ha continuato a dipingere fino a qualche settimana fa, ma anche quelli della sua famiglia, degli affetti, degli amici, il cerchio magico con la moglie, Kiky Vices Vinci.
L’ho conosciuto nel 1979, e ho vissuto nella sua casa per un anno insieme al figlio Stefano e a Kiky, Valentina, Antonia e Francesca. L’ho sempre visto come un uomo singolare, un artista a 360 gradi, un grande umanista, uno sperimentatore, un innovatore, un egocentrico dicevano alcuni, ma credo che un artista non possa essere tale se non mette se stesso al centro. E sempre sorprendente.

L’altro ieri ha sorpreso tutti, dribblando il suo appuntamento e decidendo da solo cosa voleva fare e quando. Anche della sua morte ha fatto un’opera d’arte, una magia, un qualcosa che lascia basiti e incantati.

 

 

SCHEDA

 

La progettualità prima di tutto, con l’obiettivo di rimodulare il mondo. «L’arte è ambigua – aveva scritto nel suo primo e unico numero della rivista Res Publica, uscito nel 1979 – concede l’errore e i dubbi e, con essi, l’amore. L’amore è essere. I segnali immaginari. Sono cerchi. Sono speranza, utopia, sogno». Non a caso Eugenio Carmi studiava la matematica, la geometria euclidea, la sezione aurea. Artista che mostrava pattern astratti certo, ma anche persona intrisa delle cose della vita, per le quali sfoderava un approccio tutto suo. Fu lui, nato a Genova nel 1920, a inventarsi il modo di pubblicizzare un’industria come l’Italsider (ne curava anche la rivista di informazione che leggevano gli operai, lavoratori che Carmi considerava «estremamente creativi» e con cui collaborava spesso per le scelte). Fu quindi il grafico, il pubblicitario, il pittore che dal 1956 al 1965 venne cooptato da Gianlupo Osti alla guida dell’«immaginario» dell’acciaio italiano (http://ilmanifesto.it/limmagine-imprevedibile/). Sperimentatore instancabile – materiali come ferro, latta e plastica – e animatore culturale (nel 1963 inaugurò la galleria del Deposito a Boccadesse, vicino Genova), Carmi pur al centro di molte relazioni con artisti internazionali ha sempre preferito navigare in solitaria, allergico alle «tendenze» e ai «movimenti». anche la sua stessa formazione era atipica: trasferitosi a Zurigo per sfuggire alle leggi razziali si era laureato poi in chimica. Alla fine della seconda guerra, rientrato in Italia, prese la strada dell’arte, studiando pittura a Torino con Felice Casorati. Si sposò con la pittrice Kiky Vices Vinci e nel 1958 ebbe la sua prima mostra alla galleria Numero di Firenze (presentata da Gillo Dorfles) e nel ’66 sarà alla Biennale. Da quel momento incrociò informale, arte cinetica, esperimenti elettronici, in un cocktail avventuroso, esplorando diversi linguaggi, con la poetica del «frammento per il tutto». Fino al 13 marzo, al Museo del Novecento di Milano c’è una mostra dedicata alla sua produzione.