Lo sgambetto con cui la cronista ungherese Petra Laszlo ha buttato a terra un profugo siriano che portava il proprio figlio in salvo da una guerra mai dichiarata è un’immagine plastica del cinismo e della crudeltà che domina le politiche dell’Unione Europea e traduce a livello individuale la brutalità con cui i suoi governanti hanno cercato di interrompere la corsa del governo Tsipras per portare in salvo il popolo greco da un disastro di cui non porta alcuna responsabilità. Un accostamento non casuale: l’Unione Europea non sarà mai in grado di accogliere milioni di profughi fino a che negherà diritti e imporrà solo doveri ai popoli dei suoi stati periferici. Quel padre poi si è rialzato e ha continuato la sua corsa, mentre non sappiamo ancora se Tsipras riuscirà a fare altrettanto.

In entrambi i casi, accanto a cinismo e crudeltà, balza evidente l’impotenza dell’Europa, che non ha soluzioni di lungo termine per sottrarre la Grecia e gli altri paesi troppo indebitati al disastro finanziario, ma anche sociale e ambientale, a cui li condannano le sue politiche; ma non ha nemmeno idea di come affrontare lo «tsunami» di profughi che la sta investendo e che rischia di portarla alla dissoluzione. Con le sue promesse Angela Merkel ha cercato di restituire dignità all’immagine della Germania, permettendo così a migliaia di cittadini di dar prova di una solidarietà straordinaria.

Ma ha sottovalutato sia le dimensioni effettive dei flussi che avrebbero investito il paese, sia le resistenze degli altri partner europei: la decisione sulle «quote» di profughi è stata rimandata sine die; le frontiere interne tornano a chiudersi in barba a Schengen, scaricando tutto il peso su Italia e Grecia, che dovrebbero invece farsi carico fin da subito delle richieste di asilo e dei respingimenti. E mentre il governo ungherese imperversa impunito con le barriere di filo spinato e arrestando centinaia di profughi che cercano solo di attraversare il paese, l’Unione approva la «guerra agli scafisti», che è una guerra vera.

Una guerra fatta per respingere profughi e migranti nel deserto che hanno dovuto attraversare, dove sono stati rapinati e violati, e da cui cercheranno comunque di tornare a imbarcarsi per altre vie.

A questa bancarotta delle politiche europee – niente aveva finora diviso così profondamente gli Stati membri e anche il nesso tra «crisi dei profughi» e rating dei debiti sovrani non è sfuggito all’occhio vigile dell’alta finanza – occorre saper contrapporre un’alternativa praticabile. Quei profughi, aumenteranno comunque, perché guerre, dittature, miseria e ferocia che sono andati crescendo ai confini diretti e indiretti dell’Unione dureranno per anni, e si aggraveranno ogni volta che si cercherà di venirne a capo con altre guerre. Ma se la Germania ha forza e mezzi per sostenerne l’urto e ricavarne dei benefici di lungo termine, gli altri paesi dell’Unione no. Manca, per gli Stati più fragili, una politica europea di accoglienza, che vuol dire dare casa lavoro, formazione, reddito per milioni di profughi destinati a restare sul suolo europeo per anni, perché l’Unione, con le politiche di austerità da cui non deflette, non è più in grado di offrire quelle stesse cose a decine di milioni di suoi cittadini che ne sono stati privati dalla crisi, o ne sono privi da ancor prima. E certo non può dare ai nuovi arrivati ciò che non vuol dare a chi ne è privo da tempo.

Ma accogliere è indispensabile: quel flusso di profughi non si fermerà per quanti sforzi si facciano per trasformare l’Europa in fortezza: sia con le armi che con l’ipocrita distinzione tra profughi (da accogliere) e migranti (da respingere). Preliminare a ogni politica di accoglienza è l’istituzione di corridoi umanitari che evitino ai profughi di rischiare al vita e di consegnare agli scafisti di mare e di terra migliaia e migliaia di euro ciascuno. E’ ciò di cui non si vuole mai parlare. Ma accogliere significa poi inserire i nuovi arrivati nella società, e farli accettare a una comunità riducendo al massimo quel senso di un’intrusione che tante forze politiche alimentano per ricavarne un dividendo elettorale. Non è un’operazione solo economica, anche se trovar casa e lavoro ha dei costi molto alti, i cui ritorni, come sanno gli industriali tedeschi, sono rilevanti, arrivano solo nel tempo. Chi lo può fare? Non certo il «mercato», cioè il sistema produttivo così com’è oggi, specialmente al di fuori della Germania. Ma nemmeno gli apparati statali, perché è un’operazione delicata che ha bisogno, anche, di «calore umano»: un bene che la burocrazia non può elargire se non per caso.

Affrontare in modo burocratico questo compito è il modo migliore per far crescere la conflittualità sociale. Meno che mai lo si può lasciare, come si fa in Italia, alla spontaneità di un «privato», sociale e non, reclutato a casaccio, in modo clientelare o mafioso, da prefetture o amministrazioni comunali, che ha devastato immagine e reputazione del terzo settore. L’accoglienza, in questa accezione, è la missione specifica e insostituibile dell’economia sociale e solidale. Nessun’altra componente della società europea è in grado di abbinare, sulla base di esperienze consolidate, inserimento lavorativo e inserimento sociale con progetti mirati. Per questo occorre che insieme, e non in ordine sparso, le reti dell’economia sociale e solidale (SSE) dei paesi dell’Unione si candidino al ruolo di soggetto promotore e attuatore di quel programma pluriennale di accoglienza che è indispensabile per affrontare un compito di questa portata. Il 28 gennaio 2016, su iniziativa del gruppo parlamentare GUE/Ngl e di molte reti dei paesi dell’Unione, si terrà un Forum europeo dell’economia sociale e solidale (una riunione preparatoria si è già tenute il 3 settembre).

Sarà un’occasione, preparandola per tempo, per lanciare questa candidatura, che dovrà sostanziarsi fin da ora in progetti specifici, nazionali, territoriali e settoriali. Ma per farlo occorrono alcune condizioni preliminari:

1. Bisogna, soprattutto in Italia – ma la dimensione europea può aiutarci – ricostruire un’immagine decente del terzo settore, che oggi è in gran parte macchiata dalle vicende di Buzzi, Cara Mineo e Co. Le componenti sane del terzo settore devono denunciare senza remore gli episodi di malaffare, ma anche di clientelismo, di cui sono a conoscenza; a partire dai propri, che non mancano – quasi – mai. Essenziale è garantire un regime di trasparenza totale su tutte le attività.

2. Occorre mettere a punto in tempi rapidi i principi generali e gli strumenti attuativi di un piano europeo di accoglienza e inserimento sociale e lavorativo dei nuovi arrivi con standard condivisi da tutti i paesi.

3. Occorre individuare i settori in cui dovrà operare questo piano che, per le sue finalità di integrazione sociale, dovrà riguardare in egual misura profughi, migranti e cittadini europei senza lavoro, senza casa o senza reddito.

4. Quei settori sono quelli portanti delle conversione ecologica che la COP 21 di Parigi dovrebbe mettere all’ordine del giorno a fine anno: energie rinnovabili ed efficienza energetica; agricoltura ecologica, soprattutto nelle terre oggetto di abbandono o degrado; salvaguardia degli assetti idrogeologici; recupero e ristrutturazione di edifici dismessi o non a norma (a partire da quelli in cui potranno essere ospitati migranti e senzatetto); gestione e recupero di scarti e rifiuti; servizi alla persona. 4. Il piano dovrà essere accompagnato da una stima generale dei costi.

Che non sono solo quelli degli investimenti produttivi per «mettere al lavoro» milioni di persone, ma anche quelli relativi a tutti gli altri aspetti del loro inserimento. L’economia sociale e solidale non deve più essere un modo, come spesso accade, soprattutto in Italia, per risparmiare sui costi del lavoro. Deve mirare, al contrario, ad incorporarere molti altri oneri di carattere sociale.

Ovviamente non ci si può aspettare che l’Unione o qualche suo Stato membro risponda positivamente a questa proposta domani; ma è importante che essa venga sottoposta a un pubblico confronto perché è l’unica in grado di affrontare in modo adeguato i problemi posti dai nuovi flussi di profughi. E l’«opinione pubblica» oggi è in gran parte con noi.