Delitto e perdono (Einaudi, pp. 575, euro 35) è l’ulteriore tappa di una ricerca sulla pena di morte, sui suoi soggetti, istituzioni, pratiche di cui Adriano Prosperi, emerito alla Scuola Normale Superiore, è uno dei più autorevoli esperti. Molti sono anche i suoi interventi d’attualità: l’esecuzione di Bin Laden, la sepoltura di Priebke, i malati terminali, i condannati nel braccio della morte.

Lei ha sottolineato la dimensione italiana delle compagnie della buona morte. Vede ancora i segni di quella presenza? 

Sì. È iscritta nella continuità delle istituzioni, spesso attive nelle loro antiche sedi. Il nome «misericordia» in diverse parti d’Italia designa ancora tante associazioni volontarie di donne e uomini per interventi di aiuto e di assistenza. Quelle di cui si parla nel libro da lei citato ebbero un’origine religiosa, di quella religione che Leopardi definì il «puntello del misero e crollante edifizio della presente vita umana». Le origini sono antichissime, già nelle catacombe esistono confraternite che si occupano della sepoltura dei defunti. E un margine di distanza dal potere si trova alle origini delle compagnie di giustizia, anche se molto presto cala su di loro una domanda di legittimazione da parte di poteri politici che ne trasforma la realtà. Ci sono poi le attuali forme attuali del volontariato e della solidarietà. Sono un grande patrimonio della società italiana frutto della necessità di sopperire all’assenza dello stato e allo sfruttamento da parte delle classi dominanti; espressione di una cultura democratica della partecipazione che ha un evidente valore politico, tanto che non è mancato il tentativo di soffocarla quando fu inventata la berlusconiana «Protezione civile spa», macchina autocratica di organizzazione dei «grandi eventi»: sappiamo come è finita.

La «via italiana» al supplizio mostra una politica che ha bisogno della religione…..

Il bisogno della legittimazione religiosa è un carattere originario del potere statale, come Machiavelli ha detto una volta per tutte. La differenza italiana è data dalla presenza di un potere pervasivo che è in primo luogo di natura spirituale, quello del papato. Da qui la preminenza della salvezza dell’anima nel rituale dell’esecuzione capitale laddove nel rituale francese e poi in quelli delle grandi monarchie europee, quello del patibolo è il teatro crudele degli strazi che accanto al potere reale di grazia educa gli spettatori all’obbedienza.

È per questa lontana dipendenza di legittimazione dalla chiesa che anche nel caso di Priebke in Italia si è chiesto il soccorso all’istituzione religiosa?

In Italia ormai si è affermata una cultura laica della sepoltura. E intanto, anche se quella religiosa resta la forma prevalente del funerale, di fatto molto spesso c’è ben poco di religioso in un rito consuetudinario ricercato come un diritto acquisito a prescindere dalla fede personale. Lo stato attuale della religione in Italia ha trovato espressione nella definizione del crocifisso come simbolo identitario, totalmente depotenziato, da cui sarebbe assente ogni rischio di creare inquietudini in chi lo vede affisso nei luoghi istituzionali dello Stato. Nel caso di Priebke, probabilmente per effetto della capacità innovativa espressa dall’attuale pontefice, il vicariato di Roma ha seguito una via insolita; e così, grazie a un comportamento esemplare di quasi tutte le nostre istituzioni il tentativo di saldare clericalismo e negazionismo è stato sconfitto.

Grazia ai condannati e delitto di lesa maestà. Entrambe eccezioni, miracoli. Temi affrontati teleogicamente. È ancora così?

È sulla discussione attorno la tipologia dei miracoli raccontati nelle vite di santi che si è avuto un mutamento. In tutto l’alto Medioevo, il miracolo è l’intervento di un santo o – sempre più spesso – della Madonna, in genere invocati dal condannato, che corregge una sentenza ingiusta. Colui che è accusato ingiustamente di furto viene impiccato non muore. Resta sollevato finché qualcuno lo libera dalla corda; così il carcerato per debiti trova la porta aperta dal santo e può riguadagnare la libertà. Sono storie che danno voce a sentimenti critici nei confronti degli errori dei giudici. Questa tensione latente tra giudizi di Dio e giudizi terreni sembra sparire progressivamente nei miracoli più tardi, dove l’intervento delle potenze celesti è una grazia senza condizioni, simile a quella del re, che cancella la sua colpa data per indiscutibile.

Beccaria in «Dei delitti e delle pene» è interessato, tra le altre cose, a smontare le ragioni della tortura sfiorando, per questa via, la questione del «suicidio indiretto»…..

Io non so quanto Beccaria fosse informato della pratica del suicidio indiretto che caratterizzava proprio allora i paesi luterani, pratica che creò preoccupazioni che condussero il sovrano danese a sospendere il ricorso alla pena capitale per le infanticide. Quello che Beccaria ebbe ben chiaro fu il fatto che la minaccia della morte sul patibolo poteva convertirsi in un incentivo al delitto molto di più della pena del carcere. La prospettiva di giocarsi tutto in un breve spazio di tempo poteva essere attraente ben più di quella di una sopravvivenza lunga nelle condizioni penose del carcere o del lavoro forzato.

Ci sono esperienze di assistenza non cristiana alla morte. Iona Heath, in «Modi di morire» ne ha parlato. Che ne pensa?

Mi colpì molto per le osservazioni sul modo in cui il medico dovrebbe porsi nei confronti dei morenti. In una cultura ossessivamente dominata dai miti del successo, del godimento, dell’efficienza, della giovinezza come condizione prolungata artificialmente fino all’estremo, il morire non è più la condizione normale di conclusione della vita ma è l’oscenità da nascondere. Di fatto si muore quasi sempre in ospedale e quasi sempre soli: tocca al medico stare vicino ai morenti nei loro ultimi momenti. La dottoressa Heath portava la testimonianza di una esperienza personale e suggeriva in pagine molto belle i mezzi per accompagnare chi è avviato sull’ultimo tratto del suo percorso: fondamentale è l’avere con lui un rapporto, guardarlo negli occhi, parlargli, ricorrere alla poesia, alla musica. Insomma trattarlo come merita chi attraversa una condizione la cui consapevolezza è il fondamento della nostra identità di esseri umani.

Esistono forme di assistenza ai condannati in culture non cristiane comparabili a quelle delle compagnie di giustizia?

Analogie se ne possono trovare, ma al posto di una comparazione sistematica tra realtà diverse e non comunicanti, come quella del celebre Ramo d’oro dell’antropologo James Frazer, io ho seguito il modello di comparazione proposto da Marc Bloch ne I re taumaturghi. Il segmento italiano ricostruito nel mio libro è inserito in un disegno che segue l’evoluzione storica del rapporto tra cristianesimo europeo e pena di morte da Sant’Agostino a tutta l’età moderna. Sono partito dalla diversa reazione all’uccisione di Osama bin Laden in due culture cristiane – quella di origini riformate e presbiteriane degli Stati Uniti e quella cattolica italiana – per scavare nel passato le fasi della divaricazione tra forme diverse di culture cristiane.

Oggi la chiesa presbiteriana americana mantiene salda la sua posizione favorevole alla pena di morte ispirata dal fondamentalismo veterotestamentario dei pastori di Boston tra il ‘600 e l’‘800, mentre la Chiesa cattolica ha sposato la tesi della sacralità della vita rinunciando alle giustificazioni tomistiche della pena capitale.

 

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Domenica prossima, nell’Alias della domenica, sarà presentato un intervento sul libro oggetto dell’intervista al suo autore.