Il livello della distinzione tra tipi naturali e tipi umani non è nell’essere i primi scoperti e i secondi costruiti, quantomeno, non è il piano che interessa Ian Hacking, quando lo problematizza per proporre il discrimine essenziale, consistente nel fatto che i tipi umani sono individuati in un orizzonte valoriale: «Tipi umani sono i tipi che le persone possono volere essere o meno, non per raggiungere un fine, ma perché hanno valore morale intrinseco». Hacking nota come l’assunzione o la proiezione di una tipologia umana venga a risignificare la vita degli individui, tanto nel presente quanto nella lettura della propria vita precedente.
L’esposizione dell’esperienza esistenziale delle persone autistiche attraverso testi auto-bio-patografici, che Donna Williams chiama «autibiographies», esplosa in una produzione editoriale straordinariamente florida (si pensi che esistono editori specializzati come Jessica Kingsley Publisher, con un catalogo di centinaia di titoli esclusivamente a tema autismo), ha contribuito a ridefinire i caratteri dell’autismo, non solo a livello culturale, sedimentando consapevolezze a livello pubblico sulla realtà della condizione, ma anche in quanto patologia codificata dal pensiero psichiatrico. Comportamenti determinati attraverso una griglia interpretativa codificata, in questo caso i criteri del Dsm. Le autobiografie autistiche spiazzano tutto lo spettro di metafore sul vuoto, sulla mancanza di interiorità, fortezza vuota, conchiglia vuota, rivelandone la complessità della vita interiore, e la non riconducibilità di questa ad alcuna caratterizzazione generalizzante, Hacking ribadisce ad ogni occasione che conoscere un autistico significa conoscere quell’autistico e non già l’autismo.

Metafore non innocenti
Lo sguardo genealogico di Ian Hacking si interroga sulla relazione tra l’autismo e il tempo della sua emergenza, sulle ragioni per cui attualmente si assiste a un’iperproduzione culturale sul tema, quando venticinque anni fa era completamente assente, a ciò dedica l’articolo Autism Fiction: A Mirror of an Internet Decade? (2010). Oltre al proprio lavoro, Rewriting the soul, sulle personalità multiple e I viaggiatori folli (1995, 1998), patologie fortemente radicate nel loro tempo, ricorda come la tubercolosi fosse caricata di valenze metaforiche nel XIX secolo, e così il cancro (e l’Aids), come dalle analisi di Susan Sontag (1988, 1989). Come traspare dal titolo, è evidente per l’autore il legame tra l’emergenza dell’attenzione culturale per le disabilità relazionali e il tempo della comunicazione globale. Su questo tema hanno scritto in molti, Harvey Blume (2004) sostiene un’omologia tra la scrittura Braille per i ciechi e internet per gli autistici, Judy Singer (1998), sostiene che la comunicazione mediata dalle tecnologie abbia permesso il costituirsi di una comunità, come avvenne a fine Settecento con la diffusione del linguaggio dei segni tra i sordi.
In un famoso articolo su Wired del 2001, Steve Silberman parlava dell’As come della sindrome dei geek, e Alan Turing, inventore del modello simbolico di tutti i computer pensabili, era certamente disabile relazionale secondo le coordinate dell’As, e questi sono solo alcuni degli infiniti riferimenti possibili al rapporto tra il tempo della centralità della comunicazione mediata dalle tecnologie, la contemporaneità, e l’esposizione culturale delle problematiche relazionali. Ad un tempo vincolato nella comunicazione in presenza e favorito dalla relazione mediata dal mezzo tecnico, l’autistico viene ad assumere qualcosa come una centralità simbolica, effettivamente come i sordi, secondo Lennard Davis, a fine Settecento, con la scoperta del linguaggio dei segni. Hacking affronta la questione da una prospettiva limitata, quella della proliferazione delle narrazioni sull’autismo, e della sua correlazione alla comunicazione mediata dalle tecnologie: «Si incontra l’idea che l’autismo sia la patologia del nostro decennio. Susan Sontag è solitamente dimenticata come fonte e sorgente di questa linea di pensiero. L’idea non mette in discussione la realtà dell’autismo, non più di quanto la Sontag metta in dubbio la realtà del cancro. Suggerisce solo che l’aumento della consapevolezza dell’autismo può riflettere alcune caratteristiche più generali del nostro tempo».

La ricognizione di alcuni testi tra cui Microserfs e Jpod di Douglas Coupland, lo porta a sostenere che il senso primario del rapporto tra autismo e tecnologie non sta, differentemente da quanto affermato da Silberman (2001), nel fatto che chi lavora nelle tecnologie manifesta tratti autistici, cosa che può essere vera ma non determinante, bensì nella funzione d’uso degli strumenti, la loro capacità di filtrare i livelli problematici dell’interazione in presenza, creando lo spazio per modalità di interazione sostenibili. La funzione abilitante di internet, i suoi potenziali eversivi rispetto ai canoni dell’interazione in presenza, propizia spazi di inclusione e la possibilità di creare orizzonti affermativi condivisi.

Neurodiversità e riduzionismi
L’ancoraggio dell’autismo al tempo presente si manifesta anche nella sinergia con altre evenienze specificamente contemporanee. «Neuro» è il prefisso più rinomato del nuovo millennio, una delle ragioni più eclatanti di tale fortuna è stata l’avvento delle tecnologie di neuroimaging: la possibilità di visualizzare delle dinamiche nel cervello ha attivato itinerari di ricerca neuroscientifica prima impensabili. Progressivamente si è affermata, anche a livello culturale più vasto, un’attenzione per il cervello come luogo esplicativo privilegiato. Francisco Ortega ha dedicato ricerche importanti a tale fenomeno, alle sue espressioni su differenti piani culturali, e a come la dominante interpretativa cerebrale sia diventata l’ancoraggio per delle bioidentità. Bioidentità è una identità strutturata su caratteri somatici, nello specifico la bioidentità neuro si costituisce come soggetto cerebrale.

Il soggetto cerebrale, esattamente in ragione del suo riduzionismo biologico costitutivo, si presta ad essere il cardine di agglutinazioni biosociali, brainclubs in cui il cervello viene ad essere l’omologo del corpo del culturista, con gare di performance mentale, neurocomunità, e gruppi di auto aiuto legati a specifiche condizioni come Parkinson, Adhd, e autismo. In particolare la svolta interpretativa fondamentale che ha portato all’individuazione dell’autismo come disturbo generalizzato dello sviluppo, realizzata nella terza edizione del «Dsm» (quella che ha segnato il riorientamento del manuale in senso biologista), ha posto le basi per un’interpretazione dell’autismo in termini di differenza cerebrale, different wiring, nei termini di Harvey Blume, neurodiversità, in quelli di Judy Singer e di molto dell’attivismo autistico delle ultime decadi. Sul riduzionismo al cervello si erano poste le basi per un piano auto affermativo a carattere identitario, nello spirito del minority model americano. Ortega ne approfondisce i caratteri e coglie la natura paradossale della pretesa di costituire una comunità su tale riduzionismo al cervello: «Sembra che la neurodiversità possa essere fatta valere come valore solo quando si incorpora in una comunità, ma la comunità agisce in modi che ovviamente vanno al di là del funzionamento del cervello individuale ed eccede i limiti posti dal concetto stesso di neurodiversità. Essere critici nel quadro dei Critical Autism Studies implica essere consapevoli di questo paradosso, dei suoi punti di forza e dei suoi limiti, e l’essere attenti al fatto che le metafore non sono mai innocenti, e le metafore cerebrali lo sono ancora meno».

Il termine neurodiversità è servito come attrattore interno alla retorica emancipativa, come matrice di un piano rivendicativo comune. Svincolato dall’affermazione di un determinismo biologico che ne è stato ad un tempo la condizione di possibilità e il limite macroscopico, in mancanza di alternative, neurodiversità rimane ora come piano generico di affermazione della legittimità di uno spettro di specificità e delle istanze di chi subisce disabilità relazionale. Il suo uso corrente si sta spostando dal piano delle politiche identitarie a un più debole ma senz’altro più praticabile e positivo piano autoavvalutativo.

Lo specchio anomalo
In uno spirito che evoca i tempi gloriosi di Gall e Spurzheim, negli ultimi decenni si sono succedute teorie sulle localizzazioni cerebrali dell’autismo, di volta in volta la colpa è dell’ippocampo, dell’amigdala, della prevalenza di materia bianca, dei vincoli nelle connessioni tra gli emisferi, ma negli ultimi anni un potere esplicativo particolare viene riservato a una scoperta di due ricercatori nazionali, Rizzolati e Gallese, cui viene riconosciuto di avere individuato una tipologia specifica di neuroni, i neuroni specchio, che si attivano come se stessimo compiendo un’azione nel momento in cui vediamo qualcun altro realizzarla, cosa che ha eletto la scoperta a nuova chiave cerebrale dell’«empatia». Il raccordo all’autismo è stato immediato, anche in ragione delle meravigliose risorse evocative della metafora dello specchio (si pensi alla fase dello specchio, alla teoria estetica del rispecchiamento), sono proliferate quindi interpretazioni dell’autismo in termini di disfunzionamento del sistema mirror.
Negli anni sono apparsi numerosi lavori a tema, da divagazioni giornalistiche in spirito new age che magnificavano la scoperta a serissimi lavori di neuroscienziati come Ramachandran (ma sono molti gli articoli che ha dedicato al rapporto tra autismo e neuroni specchio). Dopo qualche anno di entusiasmo per i neuroni specchio, fenomeno che ha riportato sulla breccia i discorsi vecchi e confusi sull’empatia e l’autismo, ricerche recenti sembrano mostrare che il sistema mirror negli autistici non funzioni poi diversamente da tutti gli altri (tra i molti, Hamilton, 2013). Un’altra ipotesi «neuro» sta per essere dismessa.