Lucia è una pastora, tutto il giorno sta sotto al sole dietro alle capre, si inerpica tra i sassi e i cespugli di quel pezzo di terra che ha la stessa potenza ruvida e sensuale del suo sguardo. A casa i fratelli dettano legge, la madre asseconda l’ordine familiare, il padre amatissimo è ammalato, i polmoni glieli ha divorati la fabbrica dove è andato a lavorare. Capri, Italia, l’isola aspetta l’arrivo dell’elettricità, il secolo da poco nato sbandiera ancora la sua innocenza contro la guerra che sta arrivando (siamo nel 1914), le sue idee di futuro si incontrano in mezzo al mare, il credo socialista del giovane medico condotto che vede il primo conflitto mondiale come una possibile rivoluzione delle classi, e quello della comune di un artista tedesco, in cui tutti vivono insieme provando a rompere – non senza contraddizioni – le «norme» che regolano la vita sociale, famiglia, relazioni di coppia, sentimenti.

Il corpo è la materia della sua sperimentazione, un corpo politico e poetico la cui liberazione dagli abiti, dalle costrizioni si fa gesto artistico e di sovversione, capovolge l’ordine della società verso un’utopia ancora da inventare. Lucia li vede, comincia a seguirli, si vestono di bianco, ballano la notte nel bosco, i passi sintonizzati con le avanguardie della danza (si parla a un certo punto di Mary Wigman) la stessa tensione che tornerà decenni più tardi, negli anni Settanta, tra performance artistica e ribellione.

Capri-Revolution il nuovo e magnifico film di Mario Martone (in sala il 13 dicembre), ultimo titolo italiano in gara, è ambientato nel passato ma come sempre il regista parla del presente seguendo un filo che è quello della Storia, di cui la continuità – sobbalzi, derive, detour compresi – rivela la trama più profonda. Era così il Risorgimento di Noi credevamo e l’estremismo esistenziale di Leopardi ne Il giovane favoloso, è così per questo in cui Martone conferma il talento di uno sguardo capace, come pochi, di mettere al centro la complessità conflittuale e mai dogmatica di una narrazione. Il suo è un cinema «obliquo» che cerca la realtà lungo i bordi dell’immagine (e dell’immaginario), in ciò che interroga, che solleva il dubbio più che offrire certezze, attraverso l’esperienza di pratiche artistiche diverse (il cinema, il teatro, l’opera) lasciate dialogare con leggerezza.

Capri batterie in un’altra scena di “Capri-Revolution”

L’ispirazione iniziale è stata la figura di Karl Diefenbach, artista vissuto a Capri tra il 1900 e il 1913, anno della sua morte, la cui filosofia verrà rielaborata da Joseph Beuys, artista che con Napoli ha una speciale sintonia (orrendamente sfigurato da in Werk Ohne Autor), nei loro happening il sesso è libero, la coppia non esiste, le donne e gli uomini hanno lo stesso posto, i bambini sono di tutti, ci si cura con l’omeopatia, il corpo deve essere forte ma senza superomismi (anche se tra qualcuno circola una qualche pulsione dionisiaca barlume del nazismo a venire),deve allenarsi a reagire agli attacchi trovando la forza in sé. Sono vegani – «non mangio cose morte» dirà Lucia – a cui Marianna Fontana infonde una speciale vitalità – a tavola mettendo in fuga il marito scelto dai fratelli per sistemarla – le insegnano a leggere, a scrivere, a parlare inglese, danzano senza bustini, seguendo il ritmo interiore (splendide coreografie di Raffaella Giordano, protagonista in L’Intrusa di Leonardo di Costanzo). Sembra di stare a Parco Lambro (filmato da Grifi), quando ragazze e ragazzi italiani gettano i vestiti e sperimentano nuove priorità in quegli anni Settanta che scoprono il femminismo e le battaglie per i diritti, e togliersi il reggiseno non è solo un gesto estetico, ma anche che l’esperienza della vita e della politica si scontra con la sua regolamentazione. Movimenti e partiti, rivoluzione e post rivoluzionario, sperimentare e fissare dei principi estetici, «costruire» di una relazione: cosa significa dare una forma?

Lucia lascia la sua casa e segue Seybu, biondo e carismatico (Reinout Scholten Van Aschat), di lei è innamorato anche il medico (Antonio Folletto), entrambi da qualche parte la pensano in una vita corrispondente ai loro principi, il primo nei cambiamenti a cui la comunità va incontro, il secondo nella razionalità di una risposta al mondo sempre certa. Lei però è un’esploratrice, quella sua ostinazione estrema (tutto o niente) la spinge a cercare, a non fermarsi, la porta verso l’incognita di un «Nuovo Mondo» – «sono una cattiva figlia» dirà alla madre, splendida Donatella Finocchiaro.

Conosce la terra e come tirare su un muretto a secco, divora i libri e conosce il piacere con semplicità, ogni scoperta è una nuovo inizio, un flusso inarrestabile e necessaria. E questo romanzo di formazione di un personaggio femminile verso la libertà e la consapevolezza come raramente si vede al cinema oggi (la sceneggiatura è di Martone e di Ippolita Di Majo), accordato dalle intuizioni (montaggio) di Jacopo Quadri e Natalie Cristiani, illumina il contemporaneo a partire da quel confronto tra la ricerca di sé come possibile alternativa alla «politica» astrattamente intesa, interrogando fratture e idiosincrasie all’origine di un’«antipolitica» dell’oggi, quella dei populismi e dell’afasia di una lingua (linguaggio) politico incapace di dialogare. Di cui anche l’arte partecipa, tra distacco e formattazione, come quel palcoscenico che per le performance del gruppo sostituisce il bosco, rischio di un immaginario che non riesce più a reinventare (e dialogare) la realtà.