Del fatto che la biografia fosse nell’Ottocento divenuta la forma borghese e individualistica di ciò che era stato il libro di edificazione religiosa, dunque tanto uno speculum quanto un exemplum, Marcel Proust aveva trattato con rigore analitico e una forza polemica che nessuno gli avrebbe allora accreditato nelle pagine del saggio (quasi una confessione per procura o, meglio, una proiezione autobiografica accuratamente sottaciuta) che va sotto il titolo di Contre Sainte-Beuve. Lì, come è noto, il diagramma positivista e naturalista che legge l’opera letteraria come la sommatoria o la risultante meccanica degli eventi fattuali e della materia documentaria di una singola vita non viene affatto rovesciato ma spiazzato e messo in mora tramite la distinzione fra l’Autore e il Narratore, fra colui che compare nel titolo e si firma quale Je e colui che invece corrisponde al Moi del testo che viene intanto edificandosi. È la stessa distinzione che, in altri termini, la cultura letteraria del Novecento ha codificato calcolando la dialettica tra un «io» di superficie, responsabile dell’esperienza precedente o imminente sull’opera, e un «io» di profondità, attivo più o meno consciamente nelle procedure interne all’opera medesima. Ciò ha reso evidente il discrimine che separa, per esempio, l’accumulo di dati relativi a uno scrittore francese vissuto a Parigi tra il 1871 e il 1922, figlio di un austero luminare della medicina e di una ebrea tenera e apprensiva, lui un dandy valetudinario, mondano e omosessuale, dal corpo presto illimitato di un romanzo, la Recherche, la cui dinamica propulsiva ed espansiva (Proust per le sue deraglianti campiture in luce/ombra non trovò metafora migliore della cattedrale gotica) rimodella, trascende e redime in una forma d’arte mineralizzata ogni traccia, anche la più asperrima, della sua privata vicenda esistenziale.
È quanto ha reso obbligatorio per ogni biografo il moto pendolare fra l’esplicito (i fatti della vita) e l’implicito (i segni iscritti nell’opera) come un cane fedele, fu detto, che fosse costretto a ripetere due volte il percorso: è il caso, su tutti, del Proust di George D. Painter, un lavoro piuttosto schematico e in certi punti reticente sotto il punto di vista critico ma senz’altro fondativo per la imponente recensione dei materiali allora disponibili (l’originale, edito in italiano nel ’65 da Feltrinelli – che adesso lo ripropone nella «Universale Economica Saggi» –, risaliva al quinquennio precedente e seguiva una più asciutta e tradizionale monografia dedicata dallo studioso inglese a Gide). E infatti a quella di Painter, come a una barra di appoggio, si sono comunque riferite le molte biografie successive pure se ovviamente di taglio e fattura diversi, da L’Impossible Marcel Proust di Roger Duchene (Laffont 1994) a, per restare alle più recenti, Marcel Proust di Jean-Yves Tadié (Gallimard ’96) e Marcel Proust: a Life di William C. Carter (Yale University Press 2002). Ora si smarca definitivamente dalla ipoteca di Painter il monumentale Marcel Proust Une vie à s’écrire (Flammarion, pp. 652, € 26,00) a firma di uno storico dell’arte, Jérome Picon, già responsabile della curatela degli Ecrits sur l’art e di una edizione della Correspondance proustiana (ancora per Flammarion, 2007). Va detto subito che la biografia è aggiornata à la page quanto a documentazione, che è scritta in un francese asciutto ed elegante, che non perde mai il proprio oggetto soffocandone la voce nel reticolo di una bibliografia secondaria oggi sterminata e che infine adduce tra gli apparati un indice tematico la cui accuratezza è ignota o quasi alla editoria italiana.
Picon muove dall’archetipo proustiano, poi irrigidito in stereotipo, che distingue Autore e Narratore per introdurre la domanda suggeritagli dalla sorprendente autodefinizione di un Proust poco più che adolescente, il quale si vedeva in trasparenza come un «corpo neutro». E pertanto: neutro o intermedio rispetto a quali due elementi alternativi? Tra le due serie, la vita e l’opera, che non dovrebbero incontrarsi mai ovvero divaricarsi nella dinamica a specchio tra la vicenda crudamente biografica e il moto ondoso della Recherche, davvero nulla si intromette se non l’osmosi segreta, imperscrutabile, per cui sensi/sentimenti/pensieri si fanno ipso facto scrittura? Ma via via che il recluso di boulevard Haussmann e poi della rue Hamelin è risucchiato vivo dentro il suo gran libro, tutto nella vita di Proust è scrittura, un universo che ricorda il cosmo di Spinoza dove il centro si percepisce ovunque ma i confini da nessuna parte: gli abbozzi, le stesure nei celeberrimi quaderni neri, le prime stampe e successive tra Grasset e Gallimard, le revisioni, ancora bozze e ripensamenti ma soprattutto l’esorbitante quantità di lettere (ventuno volumi nella edizione a cura di Philip Kolb) in cui si deposita sia la traccia volatile di una quotidianità ormai asfissiata e coatta sia, specialmente, l’ossessione speculare che congiunge chi scrive di sé in prima battuta, in una qualsiasi lettera e a chiunque indirizzata, a quanto viceversa egli sta iscrivendo nel testo dell’opera sua, laddove importano soltanto relativamente l’occasione e il nome dei destinatari, che siano individui bramati e sfuggenti come Alfred Agostinelli, gli amici di sempre come Reynaldo Hahn e Lucien Daudet o i pallidi figuranti della mondanità parigina. La dinamica non cambia perché, agli occhi di Picon, esiste una zona terza e intermedia fra il dominio dell’Autore e quello del Narratore, c’è appunto un corpo neutro (il che vuol dire allo stato ogni volta potenziale, ancora nudo di scrittura) dove progressivamente si interpone l’Héros, il protagonista del romanzo in eterno dialogo e colluttazione con sé medesimo. Insomma se il corpo neutro è la cassa di risonanza fra Autore e Narratore, la corrispondenza ne rappresenta il costante interfaccia, è la traccia che da un lato precede e sostiene la scrittura vera e propria ma, dall’altro, ne proviene di riflesso.
Scrive Picon: «La scrittura della Recherche, un libro iniziato simultaneamente dal principio e dalla fine, si pone in termini di riconciliazione: il riempimento di ciò che l’autore stesso ha definito l’entre-deux. Attraverso la corrispondenza, dunque, l’instabilità del corpo neutro diviene pienamente feconda: sotto il secondo volto, privilegio di un epistolografo fisicamente assente e letterariamente presente, lo scrittore plasma una quantità di autoritratti – e una autentica figura di romanzo. Nove anni di costruzione e metodo. Nove anni di reclusione volontaria, perché la vita, il mondo, gli altri, tutto minaccia l’impresa. Un libro, uno solo, sviluppato intorno a una figura, Eroe e coscienza». (Qui vanno rilevate, per inciso, alcune assonanze con il bellissimo Quel Marcel! Frammenti dalla biografia di Proust, Einaudi 2011, di Mario Lavagetto, persuaso anche lui della necessità di interrogare, nel connubio di filologia e critica indiziaria, le «prove generali» di un’opera che se affrontata in blocco, in sé e per sé, rimarrebbe impenetrabile alla stregua di una intimidatoria tautologia). Merito di Jérome Picon, con quanto è molto più che una scandita biografia, è avere finalmente dato un senso al più folgorante e sibillino tra gli aforismi proustiani, Je qui n’est pas moi , di aver cioè restituito corpo e voce allo spettro che nell’inframondo della scrittura entrambi li riunisce.