Nella vita di Piero Manzoni c’è stato un alfa privativo rivelatorio. Con la sua potenza filosofica, ha rappresentato l’inizio e insieme la fine, quella spinta cannibalica a inghiottire il mondo, prima oscurato in superfici ricoperte di bitume e catrame (i quadri degli esordi, dove però spille da balia aperte e serrature per le chiavi inducevano a immediate esplorazioni in altri territori), poi disintegrato dal bianco accecante del caolino, la polvere che si usa per la porcellana, ma anche – e il dato non è da sottovalutare – per la cura della pelle. Il caolino deterge e assorbe, spazza via le sedimentazioni. Presa nella morsa degli accidentali Achrome, neologismo inventato dall’artista a significare quel suo fare spazio per camminare in solitudine in un eterno presente, la tela assumeva su di sé una dimensione temporale effimera, si faceva fenomenologica, divenendo rugosa, chiudendosi in pieghe oppure esponendosi quasi oscenamente in tutta la sua «povertà» concettuale. La materia argillosa, dunque malleabile, perdeva ogni possibile identità per trasformarsi in pagina (bianca), supporto di una semiotica in divenire, aperta.

Dietro a quel percepire il nulla come oggetto, aleggiava il guru della cancellazione di tracce, il nemico della ridondanza: nel 1957, Manzoni aveva visto i Monocromi di Yves Klein esposti alla galleria Apollinaire di Guido Le Noci e ne era rimasto impressionato. Undici quadri dipinti di un blu oltremare ipnotico. Non si poteva più tornare indietro, bisognava andare avanti, fare pulizia. In Klein aveva trovato la conferma che cercava: se l’arte si fonda su se stessa e ha un suo statuto, inutile affaccendarsi intorno a un senso che sia nascosto. Poi a metà percorso, al vuoto spasmodico ricercato con ossessione – attraverso l’ausilio di materiali come plastiche, polistirolo, ovatta, carta straccia, linee invisibili e di lunghezza variabile – a quell’azzeramento linguistico perseguito con tenacia, veniva sostituito per sineddoche il corpo, presenza forte, vivente, prepotentemente fisica, anche quando si dava «in assenza», per sola evocazione o facendo leva su una semplice firma. Un corpo che respira (il fiato imbottigliato o utilizzato per gonfiare i palloncini, reminiscenza duchampiana dell’aria di Parigi), che si fa scultura apotropaica quando si colloca, per un precarissimo tempo, sulle celebri basi magiche.

Un corpo, infine, che si concede un valore alchemico e spropositato anche nei suoi scarti: la Merda d’artista, essiccata e sigillata in novanta scatolette da trenta grammi, simili a quelle della carne Manzotin (evidente anche il gioco di parole con il cognome), è una merce che viene paragonata all’oro, tanto da seguire le quotazioni giornaliere del nobile metallo.

È questo il testamento manzoniano di fronte alla Milano del boom degli anni Sessanta, quella che rapidamente va industrializzandosi, sostituendo l’umanesimo della prima parte del Novecento con i meccanismi finanziari del nuovo capitalismo. Possiamo racchiudere in questi due estremi la brevissima avventura esistenziale di Piero Manzoni: ebbe, infatti, a disposizione una manciata di anni per portare a termine la rivoluzione dell’arte che aveva promesso. Nato il 13 luglio del 1933 a Soncino, in provincia di Cremona, Manzoni morì d’infarto nel suo studio il 6 febbraio 1963, ancora non trentenne: furono la madre e la fidanzata ad allertarsi per un silenzio protratto per troppe ore, fino alla macabra scoperta. In quella Milano dove per la maggior parte della sua vita operò, nonostante i numerosi e ripetuti viaggi in Europa, l’artista ritorna con un leggero sfasamento rispetto alle celebrazioni del cinquantenario dalla sua scomparsa (risale, invece, al 1997 l’ultimo omaggio) e lo fa con una retrospettiva presso Palazzo Reale, che sarà visitabile fino al prossimo 2 giugno.

La mostra Piero Manzoni 1933 – 1963 propone in un allestimento sobrio, dall’impaginazione che procede (come il suo protagonista) per via di sottrazione, un percorso con centotrenta opere, selezionato dalla cura di Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Marineo ed è una coproduzione comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e Skira editore, con la collaborazione della Fondazione omonima. Se in Italia le esposizioni dedicate interamente alla sua opera si contano sulla punta delle dita, negli Stati Uniti fu Ileana Sonnabend a credere in lui per prima, quasi un decennio dopo la sua morte. Non così gli americani però, che stavolta non la seguirono nelle sue intuizioni e non tributarono una grande attenzione a quel provocatorio giovane italiano. Lo etichettarono come New Dada, senza troppe smancerie. Per un adeguato riscatto, si è dovuto aspettare fino al 2009, quando la grande monografica di Piero Manzoni alla Gagosian Gallery di New York, organizzata con la Fondazione e curata da Germano Celant, conquistò finalmente il meritato successo. Tanto da indurre Gagosian a un’altra operazione, ancora più spericolata: l’inaugurazione di una mostra nel 2011 a Londra, interamente dedicata alla stagione felice – durata solo un anno – della galleria milanese Azimut.

All’epoca, invece, solo un critico fu colpito dalla dimensione rituale e cristologica delle sue opere. Soprttutto, analizzò la performance con le uova sode (con tanto di impronte dell’artista) date in pasto al pubblico. Nel 1973, Van Der Marck nel magazine Art in America definì quell’azione collettiva una «messa». Era il 21 luglio del 1960 e Piero Manzoni, appena tornato dalla Danimarca, si presenta nella galleria Azimut da lui aperta insieme a Enrico Castellani nel dicembre del 1959. Il luogo era uno spazio autogestito, adibito a far circolare la migliore produzione d’avanguardia europea (Azimuth, con l’«h», sarà invece la rivista, che vedrà uscire solo due numeri). «La S.V. è invitata per le ore 19 di giovedì a visitare e collaborare direttamente alla consumazione delle opere di Piero Manzoni», recita il cartoncino del «vernissage». Infatti, lui è lì, con un fornelletto a bollire uova e a timbrarle, bagnando il pollice in un tampone e apponendo l’impronta digitale su quel cibo contadino eppure così denso di valori simbolici. Circa un’ora dopo, la mostra è letteralmente «divorata». D’altronde lo stesso Manzoni, sul secondo e ultimo numero di Azimuth, aveva scritto: «Non c’è nulla da dire, c’è solo da essere, da vivere».

L’arte, insomma, «è un procedimento scientifico di fondazione» e sarebbe buona norma tenersi alla larga da spiegazioni che la vogliono inserire in un qualsiasi processo fisico: «essa – dice sempre Manzoni – non potrà mai valere per ciò che ricorda». È probabile che proprio questo assunto teorico lo abbia distolto dall’idea di preparare delle fiale con sangue di artista, o ancora dalla pulsione a esporre persone morte, consrvate nella plastica. Meglio agire per via di mancanza, allora e portare nelle gallerie l’antimateria, coniugata a un ossimoro difficilmente comunicabile come il «corpo-mentale» (che assomiglia al simulacro di Baudrillard), entità sospesa acrobaticamente fra il carnale e l’astratto che Piero Manzoni aveva imparato a far muovere intorno a sé e ai visitatori fin dai suoi primi passi nell’arte. Esemplare rimane, fra i progetti non realizzati, quella linea bianca che l’autore voleva tracciare lungo il meridiano di Greenwich.Un confine invisibile che segnasse l’invalicabilità di una geografia virtuale, per nulla terrestre. Mai «sentite» nemmeno le Afonie, installazioni sonore che sarebbero dovute andare in coppia: da una parte, l’orchestra che strimpella e accorda gli strumenti, dall’altra, il battito incalzante del cuore umano. Ci ha pensato poi Christian Boltanski, molti anni dopo, a dare «voce» a quel ritmo, registrando il pulsare della vita in migliaia di persone. Manzoni tenderà invece a far sparire tutto ciò che è organico, pur nel suo continuo richiamarsi ad esso. «Ho preparato – scriveva – una serie di 45 ’corpi d’aria’ dal diametro max di cm 80; ora, qualora l’acquirente lo voglia, potrà acquistare oltre all’involucro (in gomma) ed alla base, conservati in un apposito astuccio, anche IL MIO FIATO, per conservarlo nell’involucro».