Lo spazio pubblico non è mai neutro, la sua percezione cambia in relazione alla nostra appartenenza – intersezione che delinea trasversalmente la nostra identità in quanto soggetti: non solo attraverso il genere ma anche incontrando altre categorie, sociali e culturali. Si tratta di comprendere in che misura il proprio approccio al mondo e allo spazio sia situato, cioè condizionato da diversi caratteri che si incarnano.
Negli Stati uniti, le teorie di genere e della sessualità hanno intercettato l’architettura almeno a partire dagli anni Settanta, non solo con finalità legate alle lotte comuni contro i principi gerarchici del sistema patriarcale o l’ingiustizia sociale; si trattava anche un tentativo di legittimazione e normalizzazione degli approcci più politicizzati della materia; oppure di una politica della sicurezza nello spazio pubblico, a garanzia delle donne – considerate sovente vittime o soggetti deboli.

Gli ultimi decenni hanno potuto contare su progressivi avvicinamenti tra l’architettura e i gender studies, di segno anche diverso rispetto ai precedenti. Da una parte, quelli del femminismo materialista nei confronti della storia e della memoria, più precisamente sul ruolo delle donne nell’architettura e nei confronti di professioniste meno riconosciute (tra le quali le italiane Lina Bo Bardi e Vittoria Calzolari o Charlotte Perriand, decisamente meno conosciuta rispetto al collega Le Corbusier, con il quale pure collaborò lungamente; o ancora Julia Morgan, prima donna americana ammessa alla sezione di architettura dell’Ecole des Beaux-Arts di Parigi). Dall’altra, almeno a partire dagli anni Novanta, quelli delle forme teoriche che hanno cercato di studiare l’estetica dell’architettura, nelle sue varie declinazione urbane e extra-urbane, in relazione alla sua dimensione simbolica.

Presso l’Ecole nationale supérieure d’architecture de Paris la Villette e quella di Paris-Belleville si è tenuto recentemente l’incontro Espaces genrés, sexués, queer*. Una esplorazione delle dinamiche tra spazi, sessualità, generi e corpi (da parte di ricercatrici ricercatori, attiviste attivisti, artiste artisti) comprese tanto nella loro dimensione filosofica e sociale quanto in quella materiale e formale. Gli spazi possono essere i vettori volumetrici per la classificazione e la censura delle identità, raccontando come tutto ciò che si allontana dall’etero-normatività scivoli fuori dal dicibile e dallo spazio sociale.
Abbiamo incontrato Rachele Borghi, geografa, performer e attivista transfemminista nonché maître de conference alla Sorbona: ci risponde in merito al rapporto tra corpo e spazio e alla rilevanza della performance come mezzo di sovversione.

Cosa si intende per etero-normatività dello spazio pubblico? Da dove si può partire per l’elaborazione di nuovi paradigmi estetici, sociali ed ecologici dell’abitare?
Quando si parla di etero-normatività dello spazio, si vuole intendere l’insieme delle norme morali, sociali e giuridiche applicate allo spazio pubblico e le interazioni possibili che esse intrattengono con quest’ultimo. Credo che «nuovi paradigmi» per concepire l’abitare in realtà già c’erano: anche in un passato recente si è parlato, ad esempio, della necessità di abitare il corpo e di riappropriarsene; certo, questi paradigmi dovrebbero essere riconsiderati e rielaborati in linea a questioni contingenti. Penso che sia inutile insistere sul «ritardo teorico» rispetto al modello anglosassone, perché questo «sentirsi in difetto» amplifica l’eco del primato del modello europeo rispetto a modelli altri. Sono convinta che per l’elaborazione di nuovi paradigmi si debba necessariamente guardare al femminismo decoloniale.

Anne-Marie Garnier, riferendosi alla sua traduzione del libro di Madeline Gins dedicato a Hellen Keller e al compagno artista Arakawa, parla di «corpi architettonici», composti instabili di corpo e ambiente circostante…
Il corpo è uno spazio di interrelazione potenzialmente sovversivo, per questo adatto alle performance. La loro pratica nasce come una dinamica integrata nella militanza femminista; già le suffragette facevano un uso performativo del proprio corpo. Si tratta quindi di prendere coscienza di come il corpo rappresenti un possibile laboratorio di pratiche e insieme il luogo primario dove imparare a fare militanza. Attraverso il corpo si può abitare in maniera diversa, al fine di investire di significati nuovi lo spazio pubblico ma anche l’ambiente. Il veganismo per esempio può essere definito come uno strumento di militanza rispetto allo spazio circostante, all’ambiente; può essere qualificato in quanto pratica di militanza – corpo militante – rispetto al discorso dominante.

È possibile trasgredire le norme che sono generate dal binomio spazio pubblico/spazio privato?
Lo stesso binomio, nel senso della obbligata distinzione delle due prospettive, è una formula da superare. Per riuscire a pensare a alternativi modi dell’abitare è necessario immaginare nuove formule, andando al di là di queste categorie del pensiero: ad esempio, assodato che lo spazio privato sia per definizione uno spazio intimo, provare a guardare a quello pubblico, facendolo in maniera inconsueta e investendolo dell’aggettivo intimo. Penso anche alle pratiche del quotidiano, la micropolitica come pratica di consapevolezza: è possibile sfuggire al controllo e all’autocontrollo quando si prende coscienza che tutto ciò che si fa può concorrere a reiterare le norme.

Gli studi di genere e gli studi queer hanno messo in discussione i meccanismi di produzione della conoscenza, della narrazione e della rappresentazione, contestando ogni pretesa universalista. Quanto può contare la componente soggettiva nelle pratiche?
Credo che la componente soggettiva nella ricerca sia fondamentale ma acquisisca valore se in relazione alla dimensione delle pratiche, all’ottica collettiva di un arcipelago relazionale fatto di «reti affettive». Nel caso dell’insegnamento universitario, ad esempio, è possibile andare oltre i meccanismi di produzione del sapere, come si è abituati a pensarli, partendo innanzitutto da un tentativo di sfuggire al controllo dell’autocensura. È possibile militare anche tramite i tentativi di ripensare lo spazio universitario. Nel mio caso mi riferisco alla Sorbona, l’istituzione, e penso alle aule dove insegno non solo come zone dove «reagire contro» ma anche come «zone di creazione», eterotopie, spazi aperti e connessi ad altri luoghi, di relazioni alternative con le e gli studenti – spazi di «impoteramento» dei corpi.

Donna Haraway ripete da anni che il rapporto tra esseri viventi, vegetali e macchine è interconnesso e che le nostre esistenze dipendono dalla nostra capacità di istituire delle relazioni di «coevoluzione» con le suddette alterità. Come il nostro spazio, il nostro pianeta può reagire a questo rapporto continuo tra alterità in relazione?
La prospettiva di una coevoluzione tra esseri umani e animali permette di affrontare la relazione etica come una forma di rapporto non autonomo e tra alterità. Credo che in tal senso, a fianco del femminismo decoloniale, su cui mi permetto di insistere, un altro paradigma capace di aprire a nuovi orizzonti è costituito dalle riflessioni antispeciste. Si tratta, a mio vedere, di prospettive filosofiche, politiche e culturali interessanti e portatrici di nuovi immaginari e di nuove epistemologie.