Fuori, una pioggia battente si accanisce su Milano, rendendo le strade livide come l’umore. Ma dentro al museo Pecci, un’improvvisa nota di giallo squillante accoglie lo spettatore, srotolata su gran parte della parete centrale. Nonostante questa tonalità cromatica sia associata spesso al calore, all’espansione, alla riconquista dell’emotività e dell’energia, qui indica uno stato di allerta. Un pericolo imminente.
È gialla, infatti, la cartina stradale di Los Angeles, una mappa urbana che presto – con l’aiuto della californiana Suzanne Lacy – si tingerà di rosso sangue e ogni altra indicazione di orientamento finirà in secondo piano. Difficile inventarsi un itinerario da flâneur in quella selva di brutalità che si va disegnando. Sarà lei, una specie di folletto biondo di 69 anni che sprizza da tutti i pori energia a riprodurre la sconvolgente performance Three Weeks in May: un’azione che vide la luce per la prima volta nel 1977 e non in un luogo qualunque, ma all’interno di uno shopping center, proprio lì dove le persone sono distratte per «condizione esistenziale».
Diligentemente, Lacy – oggi come allora – applica uno stencil sulla cartina, con la scritta «rape» (stupro) e il rullo immerso nel colore marca il territorio in rosso. Intorno, fioriscono altre nove segnalazioni, più evanescenti, timbrate solo come fossero un’ombra: per ogni violenza sessuale denunciata, almeno altre nove vengono taciute e passano inosservate. In contatto per 21 giorni con la polizia, Suzanne Lacy raccolse tutti i dettagli di quelle aggressioni che «recitò», in forma di brevi litanie, al pubblico sconcertato uscito per fare qualche banale acquisto. «Ore 3.15: la vittima viene aggredita sulla porta di casa, trascinata dentro e violentata. I sospetti sono due, un uomo bianco e uno nero….». Qualche volta, la vittima resiste e sventa l’attacco, ma ciò che colpisce, nello snocciolarsi ritmico dei dettagli, è la solitudine di molte donne, quell’essere immaginate solo come prede, prive di qualsiasi storia, senza presente né passato e, tantomeno, cittadinanza umana e culturale. Accadeva negli anni Settanta e accade ancora nel terzo millennio. E in questo lasso si tempo, mai terapeutico ma forse peggiorativo, i media non hanno fatto una gran bella figura. Più che neutrali, sono stati complici, istigando pregiudizi e rianimando antichi fantasmi. Lacy e le altre artiste che hanno condiviso con lei uno «stare al mondo» hanno avuto fin da subito un obiettivo preciso: sabotare quel link perverso, agendo dall’interno del mondo della comunicazione. Per riuscirci, hanno applicato l’«estetica della relazione», la stessa che ha mutato per sempre i connotati dell’arte, americana ed europea.
«Noi usavamo il corpo per attivare delle reazioni in chi ascoltava o guardava – spiega l’artista -. Non era solo una questione di genere sessuato, ma una possibilità di ’abitare’ il nostro corpo, di divenirne consapevoli. Attrarre attenzione, rendere visibile una condizione femminile – dagli abusi domestici alle violenze sul lavoro – significava fare controinformazione, agire nei network della comunicazione e farlo in modo anti-convenzionale…». All’inizio furono gli studi di medicina e zoologia a dare l’input per superare le «gabbie», poi quel body deflagrò nel linguaggio, nella forza della parola capace di «nominare» e nel gioco dell’ironia (Anatomy Lesson).
L’artista californiana Suzanne Lacy è arrivata al Pecci di Milano (14 novembre – 6 gennaio) per inaugurare una serie di mostre che si focalizzano sui protagonisti e le protagoniste dellericerche degli anni Sessanta e Settanta. La sua personale, titolo Gender Agendas (a cura di Fabio Cavallucci, in collaborazione con Megan Steinman), allestisce un banchetto concettuale dal sapore forte. E solleva tematiche mai cadute in disuso, purtroppo: si va dalla povertà agli abusi, dal razzismo all’anzianità vissuta come una sparizione di sé e un depotenziamento identitario. Le donne sono al centro della sua disamina, ma lo è soprattutto il corpo come strumento potentissimo per rovesciare i confini stabiliti (sia quelli di una comunità che quelli dei rapporti di potere). «Il nostro lavoro è stato importante perché ha messo in scena la realtà quotidiana di molte donne per la prima volta, ha dato loro visibilità in un senso diverso».
Se da una parte i giornali, di fronte agli omicidi efferati di un serial killer che strangolava la ragazze, titolavano sulle loro vite, sbirciando dal buco della serratura alla ricerca di particolari da pruderie, dall’altra, Lacy e le artiste femministe producevano un differente livello di narrazione. Come dimostra Mourning and Rage (lutto e rabbia) quando di fronte al mucinipio si pararono teatralmente dieci figure femminili vestite di nero (con alcuni sventolanti drappi rossi). Mimavano un corteo funebre ed erano pronte a denunciare, in un reading pubblico, i tanti tipi di violenza perpetrati sulle donne. Con quella sola apparizione «parlante», stracciarono pagine e pagine della stampa e i commenti di qualsiasi editorialista. Anni prima, Lacy aveva «mappato» le strade della prostituzione, consegnando una geografia dello sfruttamento in alcune aree di Los Angeles. In questo, può considerarsi una vera pioniera di quei paesaggi emozionali che connoteranno i luoghi vissuti non soltanto con le loro caratteristiche fisiche, ma anche con i sentimenti e gli accadimenti degli abitanti. Pure i suoi monumenti-pietre seminati per le strade, con le targhette dedicate a donne (non necessariamente famosissime, a volte semplicemente «esistite» e quindi divenute tracce di storia da conservare), vanno in questa direzione.
«Quando mi chiedono se sono un’attivista, rispondo che io sono innanzitutto un’artista. Mi interessa la rappresentazione e la sua forma visuale. Certamente la mia istanza è politica, nel senso che se agisci dentro il territorio dell’oppressione – di classe, genere e razza – difficilmente puoi evitare di radicalizzare le tue posizioni, confrontandoti con le esperienze delle persone. Ma non ho la presunzione di cambiare il mondo con il mio operare, anzi mi misuro sempre con la possibilità di fallimento, assumendomi il rischio di una improvvisazione mal riuscita di fronte a una larga audience come è, in genere, quella che assiste alle performance…».
Dalla vagina dentata al vampiro succhia-sangue, fino alle carcasse di agnelli (sacrificali) che finiscono per essere protesi aliene, Suzanne Lacy non ha risparmiato neanche il corpo «guastato» dalla vecchiaia, un’immagine che innalza il livello del pregiudizio sociale e nutre molti cliché, tutti aggressivi rispetto a una identità femminile. In The Crystal Quilt (opera degli anni Ottanta che ebbe luogo in un centro commerciale di Minneapolis, poi riproposta alla Tate Modern di Londra nel 2012) quattrocentosessanta donne over sixty confrontavano i propri ricordi ed esperienze, mentre con il loro gesticolare mutavano il disegno di una grande tovaglia che veniva realizzata in tempo reale da Miriam Shapiro. Si erano trasformate in audaci Penelopi dal destino aperto.