Il disegno di un utero che si ripete crea una trama in cui il soggetto è dentro e allo stesso tempo fuori dalla griglia. Per Fatima Mazmouz (Casablanca 1974, vive e lavora tra il sud della Francia e il Marocco) la grafica è il linguaggio più maneggevole a cui affidare la riflessione che porta avanti dal 2009 sui temi di genere.

Bouzbir – Uterus (2018), la nuova serie di lavori presentati dalla Galerie 127 di Marrakech a Paris Photo (selezionata da Fannie Escoulen nel percorso Elles per Paris Photo) – sue opere sono esposte anche nella collettiva all’Institut du monde arabe di Parigi (fino al 6 gennaio 2019) – esprime l’esigenza di restituire una collocazione storica a un patrimonio visuale legato all’idea maschilista di possesso che, sconfinando tra erotismo, esotismo e colonialismo, definisce la proprietà (femminile) anche in termini di occupazione di un territorio. Nelle grandi immagini di sapore pittorialista (il formato classico della cartolina si dilata occupando una superfice molto più estesa) le donne ritratte sono giovani prostitute del quartiere di Bouzbir a Casablanca (se ne parla nel saggio Bousbir. La prostitution dans le Maroc colonial Ethnographie d’un quartier réservé scritto dai medici francesi Jean Mathieu e P.-H. Maury nel 1949-50 e pubblicato da Abdelmajid nel 2003): quartiere a luci rosse creato dai francesi negli anni Venti e destinato a turisti occidentali alla ricerca di avventurosi «souvenir» esotici che contribuirono allo sdoganamento di un immaginario malsano e stereotipato del mondo arabo.

Partiamo dalla relazione tra fotografia e grafica…
Il lavoro nasce da una riflessione sulle cartoline d’epoca coloniale. In particolare, dall’idea di come il documento possa servire per la ricostruzione della memoria individuale e di quella collettiva. Nel trovare un’altra strada, diversa da quella storica che conosciamo, ho deciso di portare la mia scrittura all’interno di queste cartoline che appartengono al nostro patrimonio visuale. Ho usato un segno che è una trama e che riproduce l’utero, o meglio un utero malato perché si parla della matrice malata del colonialismo. In Bouzbir quello che appare è l’immagine di donne belle che, in realtà, hanno a che fare con una storia di esportazione. Erano prostitute che venivano tenute segregate nel quartiere di Bouzbir, a Casablanca. Per me era interessante che quelle donne dicessero qualcosa di diverso ripetto all’idea di esotismo, mettendoci di fronte al conflitto e a una possibile riparazione. Un modo di reagire costruendo un’altra realtà.

Si tratta anche di una riappropriazione di identità…
Il segno grafico è lo strumento che consegna loro la possibilità di parlare in prima persona di ciò che è accaduto. Il lavoro non intende creare ulteriori conflitti. Oggi, quando siamo tutti sotto l’influenza della stessa moda – da McDonald’s a Levi’s – non ha senso parlare ancora delle problematiche del postcolonialismo. Molti però hanno una memoria disfunzionale, deteriorata e quando non ci sono radici è più facile la manipolazione. Attraverso questo lavoro, posso restituire una memoria diretta in cui è visibile la storia di quelle donne.

L’uso del rosso è certamente carico di significati….
Il rosso è il colore delle radici, della sopravvivenza, naturalmente del sangue e anche della rivoluzione, di cui possiede la stessa energia.

Nell’idea della trama, del pattern ripetuto (il motivo dell’utero), c’è un riferimento alla sua cultura d’appartenenza che è berbera?
Sì, è un linguaggio. C’è una trama, proprio come quella dei tappeti. Le donne berbere quando tessono i tappeti usano un linguaggio visivo pieno di significati, ad esempio si parla di sessualità. C’è il segno che rappresenta la donna prima che faccia l’amore o quello di quando è incinta. È un modo di raffigurare la propria intimità. Un linguaggio che si usa sia per i tappeti che per i tatuaggi. Alcune volte riguarda la comunità, quando ci sono eventi come il matrimonio o la nascita di un bambino. È stato interessante realizzare un tappeto per scrivere la mia storia in relazione alla memoria collettiva. È stato anche un modo per entrare in una tradizione che mi appartiene. La mia famiglia è originaria di Tafraout, nel sud del Marocco e la mia madrelingua è il berbero. Quando il corpo collettivo diventa il tuo proprio corpo e la tua intimità si connota come spazio politico.

Del resto, il corpo e l’intimità sono presenti anche nel progetto «Super Oum»: si inizia utilizzando il linguaggio della fotografia che è diventato segno grafico, per tornare con «Bouzbir» nuovamente alla fotografia. Un processo di andate e ritorni…
Uso l’apparecchio fotografico come se fosse una pistola. In inglese si dice shoot, colpo. Mi mette di fronte alla mia identità. Quando sono davanti alla macchina fotografica non posso scappare. Nel realizzare Super Oum, dissi a me stessa che se non fossi riuscita a restituire un’espressione politica alla mia interiorità sarei morta. Non c’era altra via d’uscita. Ho lavorato con il corpo. La performance mi ha dato la possibilità di cambiare il mio sentire intimo e, attraverso le riflessioni che sono scaturite, di procedere oltre.

Sono fotografie che possiamo considerare come pagine di un diario?
Tutto il mio lavoro è incentrato sulla descrizione della mia interiorità. Quando ero incinta, penso come tutte, non mi sentivo più una donna. Avevo la percezione di aver perso la mia femminilità. In realtà non si trattava della femminilità in sé, ma della mia libertà. Il filosofo Cartesio diceva Penso dunque sono. Ho giocato anche con le parole nel rappresentare la mia pancia di donna incinta. In francese la panse è la pancia e pensement è il pensiero, ma è associato anche al verbo panser, medicare. Quando capisci e sei consapevole di qualcosa, puoi trovare un rimedio, una cura.

«Super Oum» è una donna incinta che combatte, una dark lady sado-maso con gli stivali con il tacco, il volto coperto e il pancione di otto mesi…
Nove! (ride)… Mio figlio è nato due giorni dopo. E quando ho fatto le foto c’era una temperatura di un grado sotto zero. Era il mio inconscio che mi diceva che se non mi sentivo bene in quel nuovo corpo, ne avrei dovuto inventare uno che mi avrebbe salvata. Poi, però, ho pensato che non avrei potuto mostrare quelle foto in Marocco, per quello ho creato delle silhouette che hanno lo stesso significato delle immagini fotografiche. Era l’inizio di un nuovo vocabolario. Ho realizzato la serie Nature morte ritagliando le tovaglie di plastica e mostrando la pancia. Il significato è diventato significante e il progetto ha preso un altro sviluppo. Quel progetto si è concluso, ma ora uso questo vocabolario per parlare del corpo coloniale. La gravidanza è stato il momento per riflettere sulle questioni di genere, perché il corpo di una donna incinta non è più di una donna e non è di un uomo, anche se c’è traccia della sua presenza. Foucault, pur non riferendosi direttamente al corpo della donna incinta, parla di eterotopia. Per me questo corpo è un luogo altro, uno spazio di transizione. È stata la fotografia che mi ha aperto la mente, portandomi a riflettere. Quando sei incinta il tuo corpo non ti appartiene, non puoi allacciarti le scarpe, sedere in maniera composta come ti ha insegnato tua madre con le gambe strette, né dormire nella posizione che preferisci… La chiave è che il mio corpo è un corpo di resistenza, ma a cosa? Esserci, vivere. Ho esteso il discorso al concetto di patria, cultura, identità.