«Il tempo scorre e non torna più» è una delle riflessioni che Angelo Santagostino affida a Laura Viezzoli, regista del documentario La natura delle cose, in sala da aprile e proiettato oggi al cinema Apollo 11 di Roma e anche al Senato per iniziativa del senatore Luigi Manconi, che parteciperà al dibattito sul tema del fine vita insieme alla figlia di Santagostino, Sara, e Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni. Angelo Santagostino, quando incontra la regista, è infatti malato terminale di Sla, così da costringerlo ad un’immobilità assoluta. A muoversi sono solo i suoi occhi, con cui scrive su una tastiera speciale. Il tempo che non torna è anche quello della vita quotidiana, il normale scorrere delle ore e dei giorni per lui è radicalmente diverso rispetto a quello che scandisce la vita delle altre persone. Filosofo ed ex sacerdote, ha lasciato l’abito talare per amore di quella che poi è diventata sua moglie, Angelo Santagostino racconta alla regista il suo passato e il suo presente, in cui un’aurora può riempire di gioia ma la sofferenza della malattia si fa ogni giorno più intollerabile – specialmente da quando ha scoperto che anche i suoi occhi si stanno immobilizzando. Ai figli affida il suo testamento biologico: se ci dovessero essere complicazioni dovute alla malattia accetta solo cure palliative, e non salva vita. Santagostino non ha potuto vedere il film ultimato: è morto nel 2014, «due settimane dopo la fine delle riprese» racconta Viezzoli, che però gli ha letto la sceneggiatura: «Angelo avrebbe voluto vedere il film, ma entrambi ci rendevamo conto che non ci sarebbe stato il tempo».

Come è nato il progetto del documentario?

Tutto è iniziato nel 2010 quando ho letto i diari di Piergiorgio Welby: nelle sue parole ho trovato una concretezza e una lucidità che mi hanno consentito di immedesimarmi in un corpo e una situazione mentale come i suoi. Così mi sono rivolta a un gruppo che fornisce assistenza ai malati di Sla, e loro mi hanno presentato Angelo: un uomo in una fase molto avanzata della malattia ma di profonda cultura e molto lucido, che voleva raccontarsi.

Si è parlato di «La natura delle cose» come di un film sul fine vita, ma in realtà racconta la quotidianità di Angelo, i suoi ricordi e la sua condizione. Il tema politico non è quasi menzionato.

Di politico in un certo senso c’è il suo testamento biologico, un’ ultima preghiera elaborata insieme ai suoi medici in un percorso durato un anno e mezzo. Non intendevo fare un film politico, ma provocare un’immedesimazione. Quello che viene spesso dimenticato è che il fine vita è un momento della vita stessa: volevo che il mio film fosse un viaggio nella sua interiorità, nei suoi ricordi.

Alle immagini della quotidianità di Angelo Santagostino vengono accostate quelle degli astronauti nello spazio.

Volevo restituire della leggerezza, «togliere peso» a questi corpi immobili,e così ho iniziato a studiare il materiale d’archivio della Nasa che si trova su YouTube. Inoltre sia gli astronauti che Angelo affrontano condizioni di vita estreme, che dipendono dalle macchine, dal progresso tecnologico. E anche quello nello spazio è un viaggio fortemente claustrofobico, in cui bisogna avere la forza mentale di astrarsi. Ma c’è anche il contrasto fra chi può salire al di sopra dei nostri confini e chi è obbligato a rimanere attaccato alle macchine.

Che processo ha seguito per raccontare questa storia?

Mi sono principalmente messa in una condizione di ascolto, stavo vicino a lui a prendere appunti e con il tempo si è creata tra noi un’intimità. Lavorando al film ho capito che il tempo della Sla non è facilmente filmabile, e che mentre il corpo di Angelo era immobile ciò che aveva dentro era al contrario molto vivace e mobile. Per questo ho messo in scena il dialogo tra noi in voice over, che restituisce la vivacità del suo pensiero e delle sue emozioni.