Nel bene e nel male, il 2019 è stato un anno importante per le questioni di genere nello sport con l’importante visibilità mediatica dei mondiali femminili di calcio ma anche l’ennesimo capitolo della saga Caster Semenya. Recentemente, la mezzofondista sudafricana, vincitrice di due ori olimpici e tre mondiali, ha dato prova di grande forza di spirito di fronte alla decisione della Iaaf (Federazione internazionale di atletica) di imporre standard che limitano i livelli di testosterone delle donne nelle prove in cui lei è una specialista, escludendola di fatto dalle competizioni.

L’atleta ha subito presentato una richiesta di appello al Tribunale Arbitrale dello Sport (Tas) di Losanna ma poiché in questo, più che in altri ambiti della vita, chi si ferma è perduto, non ha esitato a intraprendere una nuova avventura sportiva. Lo scorso settembre ha infatti firmato un contratto per la stagione 2020 con il JVW Soccer Club. La squadra milita nella Sasol League, campionato nazionale femminile di calcio in Sudafrica, e assicurerà alla ventottenne la possibilità di continuare a fare ciò in cui eccelle cioè allenarsi e battersi senza imporre limiti alle sue naturali peculiarità fisiche.

Semenya è stata dichiarata femmina e così socializzata dalla nascita ma i vari test a cui è stata obbligata una volta entrata nel circuito competitivo internazionale hanno rivelato la sua intersessualità e in particolare la sua capacità di produrre tassi di testosterone più elevati rispetto alla media delle donne (iperandrogenia). Dopo la vittoria negli 800m ai mondiali di Berlino del 2009, il suo è stato un vero e proprio calvario. È bastato che qualche avversaria esprimesse dubbi sulla sua appartenenza alla categoria «donne» perché le fosse imposto un test della femminilità, esame che il Cio aveva abolito ufficialmente nel 2006 salvo autorizzarlo in casi in cui anche solo l’apparenza fisica giustifichi dubbi da parte di concorrenti o di un’istanza sportiva. Quello stesso anno, Usain Bolt aveva vinto l’oro nei 100m e nei 200m con tempi da record ma nessuno mise in dubbio la sua «normalità». Per lo scienziato Timothy Noakes: «Gli uomini migliori nello sport vengono celebrati mentre le migliori donne vengono considerate mostri genetici».

Dal 2009, Semenya è stata costretta a continui stop e a un tira e molla con Iaaf e con la Corte di arbitraggio sportivo (Cas) le quali, per assicurare una presunta «eguaglianza delle condizioni di gioco» (level playing field) nell’atletica femminile, hanno stabilito che tutte le atlete con differenze nello sviluppo sessuale (Dsd) devono assumere farmaci per abbassare il livello di testosterone nel sangue se vogliono gareggiare. Semenya stessa ha accettato per un periodo tali ormoni ma quanto contano risultati ottenuti sotto l’effetto di farmaci? Il caso è dunque interessante perché ci pone di fronte a un’aporia: come assicurare eque condizioni di gara e allo stesso tempo rispettare il diritto a esistere di persone non conformi alle norme di genere binarie? È possibile che per rispettare la «natura» delle une si impongano ad altre terapie farmacologiche o addirittura interventi chirurgici «normalizzanti»? Ciascuno la pensi come vuole, certo è che il corpo di Caster Semenya così come quello della collega indiana Dutee Chand e altri, dimostrano che il sesso non è binario. La loro esistenza turba l’ordine e pone seri interrogativi sulla legittimità di organizzare le categorie di quasi tutti gli sport lungo una direttrice sessuale non del tutto ineccepibile né tanto meno «naturale».

Come ha sottolineato la scienziata e specialista di bioetica Silvia Camporesi in un articolo sull’«Huffington Post», «il testosterone conferisce sicuramente vantaggi atletici ma così altre circa 200 variazioni biologiche e genetiche che non comportano esclusione dalle gare». Si pensi al campione finlandese di sci di fondo Eero Mäntyranta (oro a Innsbruck 1964) a cui una particolare mutazione genetica conferiva una abnorme concentrazione di globuli rossi nel sangue con impatto significativo sulle sue prestazioni. «Se tanta attenzione si concentra sull’iperandrogenia è perché si tratta di una sfida alle nostre più radicate convinzioni su cosa sia una donna». A settant’anni dall’uscita del Secondo sesso di Simone de Beauvoir la sua domanda «che cos’è una donna?» non perde valore e radicalità.