Nell’incontro di mid-festival con la stampa (italiana) il presidente Baratta e il direttore Barbera hanno fatto sapere che alla Mostra rispetto la scorsa edizione il pubblico è cresciuto (20%). Un risultato importante, e non solo nella «concorrenza» con altri festival (per primo quello di Toronto), il dato più forte riguarda infatti il pubblico tornato sul Lido, con molti giovanissimi che fanno la coda pazienti e proiezioni spesso sold out – non solo il concorso, una delle più affollate è stata quella del film di Mary Harron, in Orizzonti, Charlie says, la storia di Charles Manson a partire dall’esperienza di alcune donne della setta.

Ieri i ragazzi erano seduti sotto al sole, che è tornato dopo le tempeste, proteggendosi con gli ombrellini sin dal mattino per conquistare la prima fila della passerella con Natalie Portman, protagonista insieme a Stacy Martin, Jude Law e Raffey Cassidy del nuovo film di Brady Corbet, Vox Lux, in concorso. Corbet è stato una scoperta della Mostra, era qui due anni fa con The Childhood of a Leader (premiato in Orizzonti e con il De Laurentiis per l’opera prima), una radiografia del Novecento attraverso l’universo familiare di repressione e violenza in cui cresce il giovane dittatore. Ma l’ «obliquità» rispetto ai suoi soggetti sembra essere per il trentenne regista americano il punto di partenza di una ricerca che nell’immaginario cerca lo strumento con cui rappresentare il mondo. Vox Lux racconta in tre capitoli, tra il 1999 e il 2017, con la voce narrante (e sraniante) di Willem Dafoe, l’ascesa di una giovanissima cantante, Celeste – da ragazzina Cassidy (che interpreta anche la figlia di Celeste), da adulta Portman, entrambe perfette come tutti gli attori – che entra nello star system a quattordici anni, a poco più di trenta è già caduta ma con fama ancora planetaria, nevrotica e fragile come chi non conosce altra vita che palcoscenico e celebrità. Il manager (Law) la segue fin dall’inizio come la sorella maggiore che scrive (segretamente) le sue canzoni. Tra loro c’è una relazione ambigua di amore/odio/dipendenza (Che fine ha fatto Baby Jane?) in cui si aggroviglia la gelosia verso l’uomo e i sogni di diventare famosa dell’altra, la bella di casa mentre Celeste era sempre stata la sorellina piccola…

Ma in questa storia che guarda alla memoria cinematografica scivola qualcos’altro. Celeste diventa famosa perché sopravvive a una strage, uno di quei massacri a scuola nell’America delle armi che fanno più morti di una guerra – le magnifiche immagini del midwest di Frederick Wiseman nel suo Monrovia, Indiana ce ne mostrano con chiarezza l’assuefazione. L’arma le trafigge il collo, dolori per tutta la vita e un collare che diventerà il suo segno distintivo. Contro la paura e il dolore scrive – in realtà lo fa la sorella – una canzone che quando alla prima persona della sua esperienza sostituisce il «noi» diviene l’inno di una comunità ferita. Una hit, la stella è nata.

Le cicatrici fisiche e intime però rimangono lì, il corpo di Celeste, il corpo della rock star baudrillardianamente è quello della nazione, di un millennio appena scoccato che ha già perso l’innocenza, forse mai avuta, icona globale, caricatura, sofferenza, parole vuote del potere, razzismo sprezzante, arroganza; lei che nella musica metal del padre di sua figlia, ormai adolescente come le sue fan rivedeva il compagno di scuola killer, mentre scopre all’improvviso che la patina delle sue canzoni pop fatte «per non pensare» è ispirazione per massacri terroristici. «Vox Lux» si chiama lo show futurista che celebra il ritorno di Celeste in cui Portman – magrissima – nella tuta glitterata è un cupo Ziggy di oggi senza futuro, senza uno spazio planetario a cui guardare. Solo lo schermo bianco mentre le ragazzine impazziscono, in un XXI secolo la cui genesi e rinascita è il terrore e il suo specchio, la sicurezza, l’ignoto che arriva all’improvviso – come non pensare alla strage di Manchester durante il concerto di Ariana Grande? – cieco, furente, demoniaco.

Del resto: per soldi e successo Celeste non ha venduto, eterna Faust, l’anima al diavolo? Scandito dalla musica di Scott Walker Vox Lux (per me Leone d’oro) continua quanto iniziato col film precedente: la Storia, le Torri gemelle, gli attentati, un occidente che scopre in sé la guerra, quella brutalità senza volto spostata sempre nell’altrove, nel sentimento ignoto del presente, di una Storia ancora in divenire. Più controllato, anche narrativamente del suo esordio, come se le potenzialità avessero trovato la giusta alchimia, nel melodramma impastato di suoni scrive il nostro tempo. È un cinema profondamente politico quello di Corbet che della realtà non cerca la semplice «rappresentazione» ma si interroga sulla materia, sulla grana (è girato in 35 millimetri) delle sue immagini. È lì che prende forma l’inquietudine, è lì nell’alternanza sui display di Celeste tra «prega« e «preda» che si afferma il sentimento della contemporaneità.