Seduta sul letto, guarda in camera e parla con lo spettatore: come nel film di ormai trentun anni fa la Nola Darling di Spike Lee – in Italia il suo nome era stato cambiato in Lola – è una giovane e bellissima artista nera di Brooklyn, piena di vita e insofferente verso la monogamia.
She’s Gotta Have it, il film del 1986 di cui era la protagonista, è ora anche una serie tv-remake creata per Netflix dallo stesso Spike Lee, anche produttore esecutivo insieme alla moglie Tonya e regista di tutti e dieci gli episodi disponibili sulla piattaforma streaming dal 23 novembre.

«La gente parla di me, ma non mi conosce» dice dunque Nola (DeWanda Wise) allo spettatore in apertura del primo episodio «#DaJumpoff (DOCTRINE)»: il «problema» della sua identità nello scarto fra percezione interiore e lo sguardo degli altri è al cuore della sua vicenda di donna orgogliosamente libera e determinata a essere chi e come vuole. Come nella storia originale, la protagonista si destreggia infatti fra tre amanti che vorrebbero l’esclusiva: l’uomo d’affari Jamie Overstreet, l’adone narcisista Greer Childs e il giovane e squinternato che vive nelle case popolari di Brooklyn – ma vorrebbe trasferirsi da Nola – Mars Blackmon, il ruolo che nel 1986 Spike Lee aveva ritagliato per se stesso e che ora è interpretato da Anthony Ramos.

Rispetto al film la serie tv – quasi un musical sulle note della musica black che scandisce l’azione, da Miles Davis a Mary J. Blige – introduce e approfondisce anche altri personaggi, come le amiche di Nola e i loro personali fantasmi. Ma anche l’arte stessa della protagonista diventa una parte integrante della narrazione e del personaggio: i suoi quadri – su cui il film non si soffermava – dipingono il mondo come Nola lo vede e lo desidera, si oppongono anch’essi a un’immagine di lei imposta dall’esterno. «Non permetterò a loro di dipingere la mia vita», dice Nola – grande cinefila – dei suoi tre amanti che come in Rashomon di Kurosawa hanno ciascuno una diversa prospettiva su di lei – e su ciò che da lei vorrebbero.

I trent’anni trascorsi dall’uscita di She’s Gotta Have it (da noi Lola Darling) permettono a Lee di indagare nella contemporaneità non solo una soggettiva femminile emancipata – che rivendica la differenza e l’amore per il piacere fisico – ma anche quanto la percezione di questa emancipazione si sia evoluta, o risenta ancora di vecchi pregiudizi, nel corso del tempo. E gli permette anche di fare ammenda di quello che nella sua autobiografia era citato come uno dei suoi più grandi rimpianti cinematografici: la scena dello stupro di Nola nel film originale, della quale Lee dice di rammaricarsi perché all’epoca comprendeva a un livello troppo superficiale le implicazioni di una simile violenza.

Lo scarto principale impresso su She’s Gotta Have it dal passaggio del tempo è però quello visibile sull’epidermide dell’altra grande protagonista del film – e imperituro amore del filmmaker: New York, e qui in particolare le strade di Brooklyn che nelle prime sequenze ci vengono mostrate con le immagini di allora e di oggi. È la gentrificazione, il «vampirismo» con cui agenzie immobiliari e classi agiate cercano di svuotare il quartiere da chi lo abita da decenni, in primo luogo famiglie african american come quella della protagonista.

E anche a questa vampirizzazione, come a quella della sua persona, Nola oppone una fiera resistenza in una sovrapposizione tra il suo stesso corpo e le strade della città, che ricopre di manifesti da lei creati e che elencano gli appellativi con cui una ragazza viene chiamata per strada in tutte le lingue del mondo – tutte udibili per le strade di New York.