«Danzare è una forma di pensiero fisico», parole di Wayne McGregor, coreografo tra i maggiori di oggi, esploratore dei nessi tra mente e movimento, creatore di un linguaggio del corpo che va al di là delle aspettative per intensità dinamica, ampiezza della scrittura articolare, relazione con il soggetto dei suoi pezzi. Classe 1970, inglese, McGregor fondò la sua prima compagnia a soli 22 anni, formazione composta da eccellenti danzatori alle prese con processi di creazione messi a fuoco negli anni insieme a collaboratori di molteplici discipline, musica, filosofia, neuroscienza.

Un approccio intellettivo e fisico alla scrittura coreografica che lo ha portato a firmare hit incandescenti come Chroma e il capolavoro Woolf Works (che spingiamo a far arrivare presto in Italia) con Alessandra Ferri, ideati entrambi per il Royal Ballet di Londra di cui è artista residente, che lo porterà all’American Ballet Theatre di New York il prossimo maggio con Afterite, inedita sua Sagra della primavera ancora con Alessandra Ferri, che lo ha visto creare in ottobre per la sua Wayne McGregor Company il folgorante Autobiography. A ridosso del debutto al Sadler’s Wells di Londra, Autobiography è arrivato in Italia al Sociale di Trento, al Grande di Brescia, dove lo abbiamo visto, e al Comunale di Ferrara. Lo spettacolo cambia a ogni replica, complice un algoritmo che si basa sul codice genetico di McGregor e che tramite computer determina in che ordine il pubblico vedrà le sezioni dello spettacolo.

Per Mc Gregor il corpo è a living archive: chi siamo noi? Quali elementi forgiano la nostra autobiografia? McGregor ha tracciato un percorso di ricordi, appunti, storie di vita, un bagaglio di esperienze determinanti da cui è nato un catalogo di movimenti. Ventitré «volumi» della biblioteca umana che ognuno di noi porta nel suo genoma, ventitré come le coppie di cromosomi del nostro DNA. Percorso creativo non certo improvvisato: McGregor ha lavorato con due genetisti che hanno sequenziato il suo DNA, sequenza poi trasformata in ventitré sezioni di coreografia mutate nell’ordine di esecuzione e interpretazione dall’algoritmo sera dopo sera.

E dunque? La storia di cui sopra non può non essere raccontata, ma che la si sappia o no travolge ciò che lo sguardo nonché il corpo percepisce sul movimento e sul rapporto tra la danza e lo spazio/tempo assistendo allo spettacolo. Una sensazione fisica e mentale, ben corrispondente alla visione della danza come physical thinking. Ogni sezione dello spettacolo ha un titolo che appare in alto in proiezione: il primo a Brescia era Avatar: scena invasa da un fumo azzurro notte, un danzatore di profilo, schiena curva, torso nudo, pantaloni neri con gonna all’indiana.

Parte un assolo che è un vortice di bellezza. In alto le luci giocano fuori e dentro una struttura geometrica (scene e proiezioni di Ben Cullen Williams) che muta a ogni volume. Folgorante la sezione dis(equilibrium) in cui i danzatori saettano in fuori asse ma soprattutto la parola brilla nella coreografia d’insieme nella quale sentiamo continuamente la forma oscillante, tra cadute e recuperi. La musica elettronica di Jlin sprona la danza. Nurture è la femminilità che urla la sua natura tra luci bianche abbacinanti, Not I è un assolo maschile stupefacente per la ricchezza del movimento delle braccia, snodate come se avessimo articolazioni mai viste. Le coreografie si susseguono facendoci sentire nel corpo migliaia di possibilità infinitesimali di movimento, un racconto dalle tante soluzioni in cui la danza ci porta a pensare all’istinto, alla natura, all’invecchiare, alla lucentezza, alla capacità di scelta.
Il pubblico applaude i danzatori e l’artista McGregor, un grande coreografo del nostro tempo. Uno dei più capaci nella sua generazione a dire qualcosa di nuovo con il corpo, con la danza.