È estremamente difficile penetrare la vita e l’opera di Antonio Ligabue (1899-1965). Lo è almeno quanto è straordinariamente facile fissarla in uno stereotipo. La sua sagoma che si presta, diresti, già pronta alla bisogna. A cominciare dal movimento degli occhi o dai rilevati tratti del volto, assunti a comporre una maschera. Così come dalla camminata o dalla gesticolazione, esposte ad una caricata imitazione, secondo le sequenze dei documentari che dell’artista si conservano. Repertorio più che sufficiente ed al quale è sembrato bene attenersi, più o meno saldamente, quando si è trattato di recitare, e con successo, il personaggio Ligabue. Ne è derivata la dolente, emarginata figura d’un uomo buono, preda d’una smania agitata cui lo costringe il suo genio di artista. Ma tant’è. Come la vita di Ligabue agisca a formulare l’arte sua (si dica la tavola di faesite, le tinte, la creta masticata e modellata tra mano.

E le ore, il volgere delle giornate e quel dimorare in sconnessi, precari ricoveri tra le giuncaie sulle prode del Po; e quel solitario, inesausto deambulare), come l’opera, dico, prenda corpo dal corpo di Ligabue, è un compito arduo da affrontare, e complicato da impostare nell’intento di metterne in rilievo modalità e costrutti. Se non mi inganno, possono venire in aiuto pagine poco note di un Antonio Ligabue, stampato presso la Libreria Rinascita di Reggio Emilia nel 1975, nel decennale della scomparsa del pittore. Le dobbiamo ad un suo coetaneo, Serafino Prati, nato a Gualtieri e sindaco, nel dopoguerra, di quel comune che nel 1919 aveva accolto il vagabondo svizzero. “L’ultima volta che lavorai assieme al Toni, scrive Prati, fu quando si costruì la strada comunale Colombaia che dall’argine maestro, attraversando la golena aperta, arriva dopo due chilometri sulla sponda del Po”.

La dura fatica non impediva al giovane Ligabue di esaltarsi in una condizione di panico appagamento: “Antonio si trovava nel suo ambiente di libertà e ci faceva capire col suo italiano strozzato di avere la sensazione di trovarsi in una foresta”, felice al pensiero d’essere anche lui una delle belve. “Un godimento spirituale che noi, aggiunge Prati, non conoscendo i suoi pensieri di artista, non potevamo capire né immaginare”. E non resta forse una dichiarazione della matrigna, resa a suo tempo agli psichiatri svizzeri che lo osservarono alcun tempo: “Antonio ha un buon carattere, non ha altro passatempo che di giocare con gli animali nel cortile di casa”? Un amore per immedesimazione, un sentire corporalmente racchiusa in sé una energia animale che lo rende volta a volta aquila, tigre, coniglio, bue. Prati ricorda “le sue abitudini di andare a passare intere giornate nel piccolo macello comunale. Si poneva in un angolo della cella di macellazione e, come attratto da una irresistibile forza magnetica, seguiva il rito preparatorio del sacrificio dell’animale da ammazzare come ipnotizzato”.

Ne sentiva la sofferenza, ne provava “brividi di orrore”. Fremevano nel suo corpo gli spasimi del morente di fronte a lui. Per Ligabua quell’immedesimarsi, ci dice Prati, non si esauriva nella partecipazione emotiva se egli giungeva “al punto di voler ad ogni costo modellare il suo naso per dargli una forma aquilina. Ciò che faceva lui a colpi di pietra, nessun altro mortale non lo avrebbe neanche tentato col pensiero. Non ascoltava i morsi atroci del dolore, né si sgomentava alla vista di tutto quel sangue caldo che gli colava copioso dalla carne lacerata, come se colasse da una pubblica fontanella”. Alcuni filmati ci mostrano Ligabue mentre si aggira tra le golene e i terrapieni lungo la riva del Po. Ora emette il grido degli uccelli palustri; ora osserva, in uno specchio che tiene in mano, il suo viso trasformarsi in muso e la bocca spalancarsi per quanto possono le fauci d’una tigre del Bengala, e gettare alto un ruggito. E come tigre, cauta, felpata accostarsi alla preda, pronto a dilaniarla.

Sovviene, al proposito, un episodio che racconta Prati, la volta che certi operai “offrirono” a Toni un cane morto: “si mise a sezionarlo pezzo a pezzo mettendo a bollire una parte che divorò subito ed i resti della carogna li mise al fresco per mangiarli i giorni seguenti, ivi compresa la testa, per quanto non molto commestibile”.