«Lottare contro la discriminazione è una battaglia politica» dice uno dei personaggi di Arguments, il film di Olivier Zabat i cui protagonisti sono persone che «sentono le voci», un’eco costante e invasiva che accompagna le loro giornate, commenta i loro gesti, li rende fragili e spaesati.

Al centro ci sono Ron e sua moglie Karen, che accolgono gli ascoltatori di voci che arrivano da tutta Europa accompagnandoli in un percorso nel quale ciò che viene comunemente definito come un’espressione della «follia» si trasforma in una diversa percezione del mondo. In questo processo Zabat fa entrare anche il cinema, cercando un’immagine e un racconto che sviano dalle rappresentazioni abituali della psicosi. L’allenamento delle sue immagini incontra con delicatezza le esperienze, si prende il tempo per l’ascolto, costruisce una relazione consapevole e formalmente aperta. Arguments è tra i film nel cartellone del festival di La Roche-Sur Yon, in Francia (fino al 20 ottobre), diretto da Paolo Moretti – dallo scorso anno alla guida della Quinzaine des Realisateurs di Cannes – che è diventato in breve un riferimento per il cinema indipendente nel mondo – l’Italia è nel concorso Nouvelle vague con Tutto l’oro che c’è di Andrea Caccia.
Ne abbiamo parlato con Olivier Zabat durante il festival di Locarno dove Arguments era stato presentato fuori concorso.

Il film sembra la ricerca di una diversa rappresentazione di ciò che definiamo follia.

Tutti i miei lavori hanno dei punti in comune, il primo è il confronto con l’invisibile, sia che riguardi i fantasmi, gli animali, o la clandestinità. In questo caso si trattava della presenza di «voci» che sentono le persone definite psicotiche. La sfida era di raccontarle mettendo in campo delle ipotesi cinematografiche lontane da un ambito strettamente psichiatrico.

In che senso?

Volevo lavorare con le persone, rimettere al centro un soggetto che si trova in una posizione svantaggiata utilizzando formalmente un’immagine sperimentale. Una suggestione importante mi è venuta dall’incontro con una ragazza psicotica che vive nel mio quartiere a Parigi. Cresciuta in una famiglia cattolica si è convertita alla religione musulmana per sposarsi. Poco dopo il matrimonio ha cominciato a sentire delle «presenze», pensava di essere molestata dagli hacker cattolici per via del suo matrimonio; vedeva segni in rete, messaggi che le venivano indirizzati, cose di questo tipo. Mi sono chiesto in che modo da documentarista potevo affrontare questo soggetto, come potevo dialogare con una persona definita «malata di mente». Parlandoci, ascoltando le sue storie, mi sono convinto che non potevo limitarmi all’aspetto medico, sarebbe stato un errore perché non sono qualificato per farlo. Però dovevo considerare la questione morale che pone confrontarsi con qualcuno molto fragile, solo, sconvolto, e l’unica possibilità era quella di esplorare la malattia come se fosse una singolarità. La comprensione e l’empatia con ciascuna delle persone che vediamo nel film diventa un paradigma sul reale. E riflettere su come possiamo domandargli di «testimoniare» le voci che sentono diventa un mezzo per mostrare delle realtà che altrimenti non hanno immagine. La follia viene presentata di solito come sofferenza, qui invece c’è un gruppo di individui che costruisce a poco a poco una visione del mondo. C’è sempre molto dolore, a volte quasi insopportabile nel caos di elementi che turbina nelle loro teste, ma al tempo stesso si vede il processo messo in atto per controllarlo,per dargli una forma, per creare una distanza. L’esperienza, l’ascolto dell’altro permettono di ridefinire anche i contorni di ciò che chiamiamo normalità, a partire da una relazione personale lontana dai contesti istituzionali.

Come ha incontrato il gruppo degli «ascoltatori di voci»?
Nel 1987 Marius Romme, uno psichiatra olandese, e Sandra Escher, sua moglie, una giornalista, lanciarono un appello in televisione in cui invitavano gli «ascoltatori di voci» a contattarli. Hanno ricevuto subito tantissime chiamate, gli «ascoltatori di voci» hanno formato una rete internazionale il cui obiettivo è di allontanarsi dalla psichiatria tradizionale. A cominciare dal termine che hanno scelto per definirsi: «ascoltatori di voci», la loro condizione non viene considerata come un sintomo di disagio psichiatrico ma come una forma singolare della percezione umana. Questo approccio era speculare alla mia posizione di documentarista, poneva un’equivalenza etica, filosofica tra il loro percorso, il loro sguardo sulla follia e il mio.

È stato difficile convincere i suoi protagonisti a farsi riprendere?
Alcuni erano più timidi, altri avevano una maggiore voglia di parlare. Alla base c’è sempre stato un rispetto reciproco, una coscienza del lavoro e del mio modo di filmare. Questo incontro ha anche cambiato la direzione del film che avevo in mente. Non avrei più osservato un’unica persona rinchiudendomi su di lei, ma mi sarei confrontato su come si può creare all’interno di un gruppo una dialettica.

Dal punto di vista cinematografico lo sforzo costante è quello di dare un’immagine a queste voci.
Dovevo rispondere a una domanda: come si può mostrare una voce che non si sente? Il loro metodo consiste nello studio di un mezzo per esternare questa voce e renderla così percettibile nel mondo reale. Il film si muove nello spazio fra i nostri due approcci alla questione.