Se la retrospettiva (curata con passione politica da Nicole Brenez) dedicata al cineasta indiano Anand Patwardhan ci ha offerto una lettura assai lucida del suo paese (per questo i suoi film sono stati censurati o addirittura messi al bando daii canali televisivi indiani), il festival parigino Cinéma du Reel, che si è chiuso con la vittoria – nel concorso internazionale – di un giovane cineasta del Bangladesh, Kamar Ahmad Simon, e del suo Are You Listening, ha posto al centro ancora una volta le molte questioni aperte sul cinema del reale. Filmare la realtà è un gesto difficile, che richiede molta pazienza, e soprattutto un progetto (di cinema) forte. Non è sempre evidente, e spesso le storie che vivono sullo schermo quando si tratta del cosiddetto «cinema del reale» tendono a concentrarsi sul proprio soggetto dimenticando un aspetto sostanziale: il ruolo delle immagini.

Nella selezione 2012, il concorso francese ha tra i premiati anche Casa di Daniela De Felice, un film che indica una certa tendenza almeno all’interno del festival parigino dove ha esordito alla direzione Maria Bonsanti. Il lavoro cioè su un intreccio personale che può allargarsi – il film di De Felice è una specie di diario della memoria familiare – coinvolgendo una riflessione sul gesto di filmare, appunto, e sul cinema stesso.

Ne è un esempio anche Fifi urla di gioia di una giovane regista iraniana, Mitra Farahani, una filmografia già abbastanza importante alle spalle (tra i titoli Just a Woman con cui ha vinto il Teddy Bear alla Berlinale nel 2009, e Tabous ) che si mette sulle tracce di un artista iraniano scomparso dal paese e, così almeno dice la leggenda che gli si è formata intorno, dopo avere distrutto quasi tutte le sue opere. Lo ritrova in un albergo romano (intuiamo dallo scorcio che si intravede dalla finestra nel quartiere Flaminio, più o meno intorno all’Auditorium). Bahman Mohassess ha lasciato l’Iran nel 1954, quando Mossadegh vene rovesciato dal colpo di stato (complici Gran Bretagna e Stati uniti che non tolleravano la nazionalizzazione delle concessioni petroliferi sino ad allora nelle loro mani) che riportò nel paese lo Shah. Anni dopo le sue opere vennero messe al bando dal regime khomeinista, ma certo difficilmente avrebbe trovato un suo spazio in quel contesto un artista insofferente, anarchico, apertamente omosessuale come lui. Alla regista rimaneva un ritratto filmato realizzato molti anni prima che lo mostrava a lavoro con la sigaretta incollata alle labbra. Poi il ritrovamento, in che modo dice la sua voce fuori campo, non me lo chiedete.

Fifi urla di gioia, prende il titolo da uno dei quadri dell’artista, uno dei pochi sopravvissuti che lo ha seguito sempre perché, come racconta ai due collezionisti arabi amici della cineasta. Il suo protagonista accavalla ricordi, commenti, battute sul divano dove controlla la sua malattia. «Fifi sono io, siete voi», grida ai due, dunque un ribelle, un ragazzo che ama i ragazzi e si diverte a vivere questo suo desiderio. A Roma ne ha conosciuti tanti, volti antichi, un po’ da ragazzetti, allora la città era sua. «Dipingere era come respirare per me» dice, e intanto si perde davanti alla tv, in una estate romana caldissima, lasciandosi cullare dall’amato Gattopardo viscontiano, uno dei film che ama di più. Perché Bahman Mohassess non esce più di casa, fuma sempre attaccato alle sue sigarette ma non vede più nessuno. La stanza per lui è un mondo, affollato dai segmenti della sua vita. E però Fifi non è un ritratto dell’artista nell’intimità della solitudine e della paura di fronte a una nuova commissione che lo obbliga a confrontarsi coi suoi fantasmi, la debolezza che ormai gli impedisce di dipingere ancora una volta. È piuttosto una relazione che racconta, quella tra la cineasta e il suo soggetto a cui lei si avvicina lentamente fino a entrare nel recinto del suo privato. E assistere col pudore del «fuoricampo» (nel senso che non la vediamo) alla sua morte, forse questo un passaggio di troppo, il rantolo dell’addio, qualcosa che lascia filtrare un po’ di senso voyeur disturbante nella sua violenza che pone necessariamente ulteriori interrogativi.

Una relazione è anche Le Terrain di Bijan Anquetil , che filma il quotidiano di un accampamento rom a Saint-Denis, nella periferia parigina. Il suo non è cinema di osservazione, e anzi dichiara una presenza evidente; spesso le donne che sono protagoniste si rivolgono a lui apertamente, gli offrono un pasto, gli fanno domande. È chiaramente un altro tipo di complicità che prende vita ma anche in questo caso al centro c’è la fiducia necessaria tra il cineasta e i suoi soggetti perché possa accedere nel loro «interno». Peraltro Anquetil ha passato un anno nell’accampamento, prima che venissero spostati altrove, e il suo film diviene perciò anche una sorta di memoria comune di quel luogo e del vissuto.

In qualche modo questo tipo di approccio rivendica una sua «politicità» che al di là del soggetto narrato si pone delle domande sul modo di raccontarlo, e perciò sulla sostanza delle immagini assumendone i rischi, che siano il voyeurismo o una banalizzazione del quotidiano. Ma la scommessa è proprio qui, anche perché questa relazione ( pure Casa di De Felice lo è visto che le mitologie familiari affiorano nel confronto tra la regista e la madre) finisce col coinvolgere anche chi filma, e in uno modo diverso, persino «sovraesposto» come nel caso di Fifi o in El Otro Dia di Ignacio Agueiro, dove il regista cileno decide di filmare chi suona alla sua porta, mendicanti, disoccupati, tossici … E intanto lascia scorrere nel suo obiettivo gli oggetti della casa, una memoria privatissima, che risale all’incontro dei suoi genitori, alle fotografie dell’infanzia, a quello spazio di giardino dove nel silenzio si ascolta il canto degli uccelli. La relazione qui si allarga, si moltiplica, diviene specchio del paese. Privato e collettivo.