Lo spirito con il quale abbiamo deciso di promuovere l’incontro di Paestum 2013 nasce dall’idea che le relazioni non sono fertili quando diventano il luogo di riconoscimento strutturato sulle appartenenze, sulle identità simbiotiche, sulla chiusura nel già dato. Nell’incontro preliminare bolognese avevamo messo in luce il nostro desiderio di dar vita ad un altro incontro come Paestum 2012, per tessere nuove relazioni e per creare spazi di parola viva in presenza sulle questioni che più ci stanno a cuore. Per una generazione come la nostra, che vive uno sfilacciamento costante dato dalle condizioni di vita materiale, è un’occasione preziosa per venire in contatto con donne che vivono lontane. Nella lettera d’invito ritorna più volte la questione della pluralità delle voci e delle pratiche politiche. Si legge, infatti, che la pluralità è un «presupposto di percorsi comuni, che non snaturano le nostre differenze ma, al contrario, le arricchiscono. Non una dinamica fusionale di assimilazione, bensì l’incontro nel rispetto reciproco dei percorsi differenti». Così è stato per noi nel rapporto con le altre firmatarie della lettera e con quelle che poi sono venute a Paestum.
Abbiamo fatto riferimento più volte alla pratica dell’esserci in prima persona e all’autocoscienza, intesa come quell’attività attraverso cui la coscienza si spoglia di tutte le forme convenzionali e sociali, per far emergere con altre quella parte di sé sconosciuta e inesplorata. Queste pratiche sono possibili solo in una relazione politica autentica, quando ci si mette radicalmente in gioco. Nel laboratorio da noi moderato, insieme a Lia Cigarini, su lavoro ed economia, queste pratiche le abbiamo viste agire, creare spostamenti e dare frutti fecondi. Siamo partite dalla nostra capacità creativa di tessere gli intrecci tra libertà e necessità. Ognuna ha parlato a partire da sé del rapporto tra lavoro e reddito, tra tempo di lavoro retribuito e non, del rapporto tra un fare che genera senso e uno avvilente, del mercato e delle possibili pratiche politiche con cui contrastare il sistema economico in cui viviamo.
Sentiamo però che qualcosa è rimasto in sospeso: ci riferiamo ai diversi tentativi cui abbiamo assistito di aprire conflitti. È fondamentale per noi sottolineare l’importanza di quei tentativi perché ci parlano di un desiderio di esserci e di agire, di un desiderio che risuona dentro di noi e in molte coetanee, di trovare nuovi linguaggi incarnati. Gesti e parole in cui la creatività torna ad intrecciarsi alla politica, per spingerla verso una ricerca sperimentale in grado di produrre azioni metamorfiche, profondamente aderenti alla nostra pelle, alle nostre vite, alla realtà.
In questo percorso di ricerca, però, è decisivo interrogarsi puntualmente sull’efficacia dei suoni che decidiamo di emettere e dei nostri corpi in azione. Riteniamo importante aprire un dialogo anche su questo, muovendo dalla nostra pratica politica che non si dà nella forma immobilizzante dell’evitamento, ma fa del conflitto una mossa vitale di trasformazione sia nell’orizzonte relazionale che nel contesto in cui ciascuna di noi vive.
La pratica del conflitto è un’arte che s’inventa a partire dalla propria singolarità in relazione e accade, ogni volta nuova, imprevista e irripetibile. La stessa non funziona mai due volte, la ripetizione le fa perdere di efficacia producendo una fragilità che ricorda l’odore stantio dei vestiti che andiamo a recuperare nelle soffitte.
La pratica del conflitto dovrebbe invece parlarci di una forza guerriera e della grande capacità dei corpi delle donne di intercettare l’autorità, agendola senza occuparla, senza trattenerla su di sé, bensì lasciandola libera di fluire e circolare. Una potenza generosa e contagiosa. Un conflitto è politicamente efficace quando è dichiarato, quando c’è chiarezza su chi è agito (destinataria), con chi è agito e su che cosa è aperto, vale a dire sulla posta in gioco su cui si chiama il contenzioso. Ma se invece non c’è questa chiarezza, si genera uno stato di caos che rende difficilmente praticabili quegli incontri che all’inizio si auspicavano, e fa da inciampo alla possibilità di creare insieme nuove pratiche. Poi, che l’esposizione dei corpi abbia sempre un effetto dirompente ed euforico, basti pensare alle consuete e abusate forme mediatiche, è lampante, ma tutto ciò non ci parla di nuove invenzioni. Si tratta invece di generare insieme l’inedito nei pensieri e nelle pratiche politico-artistiche, per rendere proficua quella tensione costruttiva che si sprigiona anche dai conflitti più accesi. Affinché questa si dia tra di noi, invitiamo tutte le donne della nostra generazione a un incontro a Bologna nel prossimo dicembre. L’azione sorgiva di un nuovo femminismo è quella che, senza separare il pensare dall’agire, porta l’arte nella politica. È questo che desideriamo, è questa, per noi, la scommessa iniziata con “libera ergo sum”.