Cosa significa essere un ragazzino afroamericano nell’America di oggi, crescere con la pelle nera in uno Stato del profondo sud, in quel Mississippi dove solo qualche decennio fa poteva bastare sbagliare strada, perdersi in un quartiere bianco per rischiare la vita? E quale forma può assumere la memoria di quella stagione di sangue nella vita di un giovane nero allevato da una madre e una nonna che portano ancora su di sé le ferite, fisiche come interiori, del razzismo?

Una risposta a tali interrogativi la offre Il giusto peso (Black Coffee, pp. 294, euro 15, traduzione di Leonardo Taiuti) di Kiese Laymon che pur raccontando una vicenda che non potrebbe essere più intima e delicata, finisce per offrire degli scorci illuminanti su una traiettoria collettiva e su una stagione della storia degli Stati Uniti tutt’altro che archiviata. Non a caso, lo scrittore afroamericano ha scelto di presentare questa sua seconda prova letteraria come «un memoir americano», consapevole, evidentemente, del ruolo che una tale testimonianza può assumere per descrivere una condizione più generale.

Nel libro, Laymon racconta infatti – nella forma di una lunga lettera indirizzata a sua madre – una storia d’amore e di legami famigliari, il modo in cui è cresciuto accanto alla madre e alla nonna e come le loro paure verso l’onnipresente violenza dei bianchi lo abbiano reso via via insicuro, fragile, lo hanno condotto verso forme di dipendenza dal cibo, come a lunghi e estenuanti periodi di digiuno. Quel corpo che percepiva come costantemente minacciato e soggetto all’esame e alla possibile riprovazione dei bianchi si è così trasformato in una sorta di gabbia che prima che proteggerlo ha finito per imprigionarlo. E solo la lenta e dolorosa consapevolezza di questa condizione, ciò che ha reso possibile a Laymon di scrivere il libro, lo hanno condotto, almeno in parte, a cercare una via d’uscita. Quel che nel frattempo è riuscito a mostrare, come lui stesso ha spiegato più volte, è quanto il permanere della minaccia della supremazia bianca decida ancora in molti modi del destino degli afroamericani. Lo ha fatto raccontando il razzismo attraverso l’amore.

Quando si parla di crisi della comunità afroamericana si fa spesso riferimento all’assenza dei padri – a causa, tra gli altri motivi, delle incarcerazioni di massa. Nella sua famiglia c’erano due donne che non le hanno certo fatto sentire alcuna mancanza, come sono andate le cose?
In effetti sentiamo spesso parlare di padri assenti ma non di madri presenti. Un padre che vedevo tutti i giorni non mi avrebbe aiutato affatto, se avesse proposto, come accade in molti casi, dei comportamenti dannosi. Mia nonna, mia madre e mia zia erano abbastanza brave ad amare. Hanno provato. Talvolta hanno fallito, talvolta no. Come sarebbe accaduto a chiunque. Ma la loro capacità di amare è il motivo per cui oggi racconto queste vicende. Il mio libro parla dell’amore. Possiamo parlare della differenza tra bianco e nero, o tra democratici e repubblicani ma se non impariamo ad amare le persone che pretendiamo di amare, non abbiamo alcuna possibilità. Trump dice che ama l’America. C’è qualche prova di tutto ciò? No. Non c’è assolutamente alcuna prova che quell’uomo ami davvero l’America. E è cresciuto in una famiglia nella quale c’era un padre ben presente.

Il desiderio di sua madre di proteggerla dai bianchi, dalla loro violenza, come dal rischio di finire in galera per futili motivi o essere ammazzato da un poliziotto in mezzo a una strada, sembra aver reso la sua vita più difficile. Tutto ciò ha finito in qualche modo per ferirla lo stesso…
I bianchi negli Stati Uniti sono stati così violenti con i neri che si ritiene che se ci presentiamo come perfetti, «al di sopra di ogni sospetto», abbiamo maggiori possibilità di tornare a casa, di non soffrire, di avere accesso a scelte sane e, talvolta, anche a una seconda possibilità nella vita. Da bambino mi sembrava che Martin Luther King fosse vestito molto bene quando è stato assassinato. Obama incarnava perfettamente ciò che mia madre voleva che fossi anch’io. Voleva che fossi magro, che parlassi come Obama, voleva che non affrontassi mai i bianchi in alcun modo percepibile come duro, conflittuale. Ma durante la sua presidenza molti bianchi hanno definito Obama come un radicale, dicevano che era un musulmano o che era un terrorista e un amico dei terroristi. Perciò, credo di poter dire che la Storia di questo paese indichi come eccellenza e rispettabilità non liberino i neri. E non gli salvino necessariamente la vita.

Cosa significa per un ragazzo nero crescere con l’idea di doversi interrogare ogni momento su quello che i bianchi potrebbero fargli o potrebbero pensare di lui?
Sono cresciuto in una casa nera, in un quartiere nero, in una comunità nera, ma quest’ansia per i bianchi mi ha sempre circondato, anche prima che mi ritrovassi insieme a qualche altro ragazzo nero in una scuola esclusivamente bianca, dopo che quella che frequentavo era stata chiusa per assenza di fondi. Nella mia infanzia, è come se i bianchi fossero stati sempre intorno a noi. Credo che almeno in parte tutto ciò fosse dovuto al fatto di vivere nel Mississippi, dove il rapporto dei bianchi con noi è stato segnato da una lunga storia di brutalità. Allo stesso tempo, così facendo, coltivando questa paura ogni giorno, è come se si finisse per far diventare inavvertitamente i bianchi i poliziotti della tua vita. Per me tutto questo ha significato però anche molte altre cose. Mia madre diceva sempre: «Devi essere due volte più bravo della gente bianca». Solo che intorno a me vedevo persone che non stimavo, dei bianchi che mi sembrano tutt’altro che prossimi all’eccellenza. E quindi non capivo davvero a cosa dovessi guardare. Mi sembrava che mi fosse preclusa la possibilità di poter guardare ad altro, fuori dagli schemi, perché questo mi avrebbe condotto nelle grinfie dei bianchi. Poi ho capito che sia mia madre che mia nonna stavano cercando di proteggersi e di proteggere il loro bambino. come fanno molti genitori neri nel profondo sud dell’America.

Malgrado il senso di questa minaccia accompagni buona parte del libro, i bianchi restano in realtà costantemente sul fondo, non hanno un vero spazio nel suo racconto.
In effetti ho scelto che «Il giusto peso» avesse la forma di una sorta di lettera a mia mamma perché sono stanco di leggere libri in cui i neri parlano alla gente bianca di gente bianca. Penso che ci sia una differenza tra scrivere un libro per i bianchi e scrivere un libro che riguarda una condizione particolare: quella di parlare sempre dei bianchi alle persone di colore. Odio quando vado a seguire il discorso o la performance di un afroamericano che si sta però rivolgendo a un pubblico in maggioranza bianco. Ecco, con il mio libro non volevo partecipare a questo fenomeno, a questa modalità che mi sembra rendere tutto meno vero.

Un’immagine dello scrittore pubblicata sul sito dell’Università del Mississippi

Nel libro sembra esistere un dualismo tra l’amore e la violenza, sintetizzato nell’atteggiamento di sua madre che spesso ricorreva alle botte di fronte alle sue presunte mancanze o allo scarso impegno a rispettare quelle regole che avrebbero dovuto salvarla dai bianchi. Crede che amore e violenza possano coesistere?
Penso che l’amore esista per affrontare la violenza. La violenza in ogni sua forma: emotiva, razziale, di genere. Perciò, in effetti credo che possano coesistere: l’amore non soffoca la violenza ma cerca di disarmarla in qualche modo. E, allo stesso tempo, penso che finiamo per usare spesso la violenza come un modo contraddittorio e terribile per amare. Del resto, come dice sempre James Baldwin e come ci insegna Toni Morrison, l’amore non è mai puro, è sporco, puzza e porta con sé la paura.

Il corpo nero che attraversa le pagine del libro è alla ricerca del «giusto peso», ma si ha l’impressione che quello fisico sia il carico meno difficile da portare. È lo stesso essere neri che si trasforma in un peso nella società americana?
L’essere nero, in sé e per sé, non è affatto un peso. In questa nazione, portiamo tutti l’immenso fardello di essere umani, ma le nostre spalle sono doloranti come l’inferno perché gli americani bianchi hanno cercato di distruggerci intellettualmente, psicologicamente, emotivamente, economicamente e noi li abbiamo anche aiutati un bel po’. Quindi, il vero miracolo è che non ci hanno ancora spezzato. Non siamo rotti, anche se siamo davvero stanchi.

Questo «memoir americano» rinnova anche il suo rapporto con il Mississippi. Cosa significa essere uno scrittore nero del profondo sud, oggi?
Sono nato nel Mississippi perché mia nonna ha rifiutato di scappare dalla terra in cui lavorava all’epoca della grande migrazione degli afroamericani verso nord. Da noi, si dice sempre che un giorno la terra sarà finalmente libera. Ciò significa che un giorno noi neri, latinos e indigeni condivideremo i doni della terra allo stesso modo, in modo equo anche con la nostra famiglia bianca. Quello che posso dire è che per il momento le cose non vanno ancora in questo modo.

 

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Una voce nuova del romanzo americano

Nato nel 1974 a Jackson, in Mississippi, Kiese Laymon è autore del romanzo Long Division e dei saggi raccolti in How to Slowly Kill Yourself and Others in America. Docente prima al Vassar College e ora all’Università del Mississippi, Laymon esplora questioni legate a razzismo, al femminismo, alla società americana e alla famiglia come dimensione intima. I suoi scritti sono apparsi su diverse testate, tra cui New York Times, Guardian, BuzzFeed, e nelle antologie Tales of Two Americas (curata da John Freeman) e The Fire This Time (curata da Jesmyn Ward).
Il giusto peso, è stata giudicato come uno dei migliori libri del 2018 da New York Times, Washington Post e New York Times Critics e si è aggiudicato riconoscimenti quali l’Andrew Carnegie Medal for Excellence e il Christopher Isherwood Prize.