Il contagio del nuovo coronavirus, partito dalla Cina, si sta espandendo con una certa rapidità anche in altri paesi – Italia compresa. E che la situazione sia seria l’ha confermato anche L’Organizzazione Mondiale della Sanità, dichiarando l’emergenza sanitaria globale.

Di sicuro, sul coronavirus si stanno addensando sempre più preoccupazioni e paure. In un certo senso, è fisiologico: ogni epidemia genera un’ondata di paura, a maggior ragione in un’epoca interconnessa come la nostra.

Se da un lato le autorità sanitarie nazionali stanno facendo di tutto per tranquillizzare le popolazioni, dall’altro lato c’è chi approfitta di questo clima di incertezza per diffondere notizie false, video decontestualizzati (come quello dei cittadini cinesi che «cadono a terra colpiti dal morbo») e teorie del complotto – vuoi per fini di lucro e scopi politici, o per incrementare il traffico, o ancora per la convinzione che non ci vogliono dire come stanno veramente le cose.

Il meccanismo è molto simile a quanto già visto con Ebola nel 2014: basta mescolare brandelli di verità con la finzione, attingere dal vasto immaginario dei disaster movie o del survival horror (pensiamo a film come 28 giorni dopo, o videogiochi come Resident Evil) e seminare caos e sospetti.

I social network sono i luoghi in cui certe teorie nascono e si propagano, ma è solo grazie ai media tradizionali – in primis la televisione – che riescono ad assumere una rilevanza di massa e diventare oggetto di discussione nella quotidianità.

A tal proposito, in Italia abbiamo due esempi piuttosto indicativi. Il 25 gennaio del 2020 il direttore di TGCom24 Paolo Liguori ha rivelato di aver appreso da «una fonte attendibilissima» che «tutto nasce dal laboratorio di Wuhan», in cui si conducono «esperimenti militari coperti dal più grande segreto». Il coronavirus sarebbe dunque un’«arma batteriologica» sfuggita al controllo dei cinesi.

Peccato che la «fonte affidabilissima» di Liguori non sia né una «fonte», né tanto meno sia attendibile. Si tratta in realtà di un articolo della screditatissima testata americana Washington Times – da non confondere con il noto Washington Post – in cui si dà per assodata l’origine «militare» del virus sulla base di pure congetture.

La leggenda del «laboratorio segreto» è stata smentita più volte, ma ciò non ne ha impedito del tutto la diffusione. Anzi: il 29 gennaio del 2020, l’europarlamentare del M5S Fabio Massimo Castaldo ha comunicato su Facebook che presenterà un’interrogazione parlamentare «per conoscere a fondo la realtà dei fatti» sul laboratorio di Wuhan (che esiste sul serio, ma non conduce esperimenti da film degli anni ’80).

Nella puntata del 30 gennaio 2020 della trasmissione Coffee Break di La7, invece, il cospirazionismo sulle origini del virus ha cambiato colpevole: gli Stati Uniti. Il fondatore del partito «sovranista» Vox Italia, Diego Fusaro, ha detto che il coronavirus ha «un’intelligente strategia filo-atlantista» perché «emerge proprio nel momento di massima criticità del rapporto tra USA e Cina» e «va a scompaginare il mondo cinese mettendolo in ginocchio». Non esistono prove, e di certezze nemmeno l’ombra; ma poco importa: «siamo nel tempo delle guerre batteriologiche e delle armi chimiche di distruzione di massa – chiosa Fusaro – quindi non trascurerei questa pista».

La «pista batteriologica» non è di certo l’unica battuta finora. Un’altra teoria del complotto piuttosto in voga sostiene che il coronavirus è stato creato da un istituto di ricerca inglese – il Pirbright Institute – che produce vaccini. La pistola fumante è un brevetto di vaccino per il coronavirus, depositato nel lontano 2015 e pronto a essere commercializzato al momento giusto (cioè ora).

Come intuibile, questa tesi è circolata inizialmente negli ambienti antivaccinisti statunitensi ed è arrivata in Italia su Facebook, Twitter e YouTube. Il problema è che il brevetto non parla affatto del Coronavirus 2019-nCoV, ma riguarda «lo sviluppo di una forma indebolita del coronavirus che potrebbe essere potenzialmente utilizzata come vaccino per prevenire le malattie respiratorie negli uccelli e in altri animali». Il Pirbright Institute, infatti, si occupa di malattie infettive che colpiscono il bestiame.

E non è finita qui, perché in uno spin-off della teoria del «coronavirus brevettato» – sempre provenienti da complottisti americani di estrema destra – il supercattivo diventa Bill Gates: il fondatore di Microsoft non solo ha finanziato il Pirbright Institute attraverso la sua Gates Foundation; ha addirittura «previsto» l’epidemia di coronavirus, aggiungendo che ucciderà 65 milioni di persone.

Come faceva a saperlo? Semplice: fa parte di un piano dell’«élite globalista» che vuole obbligare la popolazione a vaccinarsi, e contemporaneamente intende sterminarla per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici. Inutile dire che non è vero, e al massimo sarebbe un’ottima sceneggiatura per un film apocalittico.

Un filone alternativo ai grandi complotti planetari è poi quello delle catene di Sant’Antonio su WhatsApp che lanciano allarmi di ogni tipo. Una invita a «non andare nei negozi cinesi» perché «molti commercianti cinesi […] hanno continui contatti con la catena di distribuzione nei loro ingrossi» in Cina. Un’altra avverte di stare a larga dai ristoranti cinesi in Italia, dove si mangia la «zuppa di pipistrello»; altre di non comprare su siti di e-commerce come Wish e di evitare i «quartieri cinesi» delle città.

Tuttavia, come ha spiegato il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro, «la trasmissione di questo virus avviene prevalentemente per contatto tra le persone, e non per via alimentare […] o attraverso oggetti inanimati come giocattoli, vestiario o altre tipologie di materiale».

Per quanto queste bufale possano apparire innocue, e alcune teorie del complotto davvero assurde, in realtà hanno sempre effetti negativi – soprattutto per le persone di origine cinese che si trovano in Italia, e che ora devono sopportare lo stigma di untori.

Negli ultimi giorni si sono infatti verificate aggressioni fisiche e verbali, e sono tornati prepotentemente di moda antichi stereotipi razzisti sul cibo, sull’igiene e sulla predisposizione «malvagia» dei cinesi. A cui, per l’appunto, si aggiunge lo stigma di essere untori.

La docente di marketing Lala Hu, vittima di un recentissimo caso di sinofobia su un Frecciarossa, ha raccontato su Twitter di non essere «preoccupata per me o altri che hanno sviluppato anticorpi a razzismo, ma per chi non ha strumenti per difendersi». Come i due fratelli in provincia di Rovigo lasciati fuori da scuola perché i genitori dei compagni «non vogliono bambini cinesi»; oppure come il calciatore 13enne a cui viene augurato di ammalarsi.

«Il dramma del coronavirus preoccupa le persone di origine cinese come quelle italiane», scrive ancora Hu, «ma ciò non giustifica intolleranza e violenza di ogni sorta».