Più lunga sarà l’emergenza globale coronavirus, con le economie di decine di paesi quasi ferme e centinaia di milioni di persone barricate in casa, è più le petromonarchie del Golfo, dipendenti dall’esportazione del greggio, dovranno tagliare miliardi di dollari di spese. Più la pandemia durerà, più saranno basse le quotazioni del petrolio – giunte ai minimi da diversi anni a questa parte – e meno miliardi di dollari entreranno nelle casse dell’Arabia saudita e degli altri regni del Golfo. Le conseguenze si annunciano disastrose per le popolazioni locali e per milioni di lavoratori stranieri (asiatici e di vari paesi arabi) che sono in quell’area. Saranno ridotte di netto le spese assistenziali e sociali ma, questo è l’auspicio, anche quelle militari. Un risvolto della crisi coronavirus che potrebbe riguardare in particolare l’Arabia saudita e gli Emirati.

Qualche giorno fa Annamaria Merlo sulle pagine de il manifesto raccontava che l’acquisto di armi è in costante progressione negli ultimi anni – 1739 miliardi di dollari nel 2017, secondo i dati raccolti dall’istituto Sipri di Stoccolma – e proprio Riyadh ha aumento l’import militare del 130% negli ultimi cinque anni, toccando il 12% mondiale (seconda l’India con il 9,2%). Il regno saudita, di fatto già guidato dell’ambizioso e spietato principe ereditario Mohammed bin Salman, compra ogni anno armi per decine di miliardi di dollari, da Stati uniti e Francia e in misura minore da altri paesi. Tra qualche mese inevitabilmente sarà costretto a rivedere al ribasso l’impegno nel militare. A trarne giovamento sarà la popolazione civile yemenita soggetta da cinque anni ai bombardamenti aerei della coalizione araba a guida saudita.

La Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale (ESCWA), in un rapporto appena pubblicato, prevede che nel 2020 in Medio oriente si perderanno oltre 1,7 milioni di posti di lavoro, soprattutto nei servizi. Molti di questi in Arabia saudita. La monarchia Saud tra il 15 marzo e ieri ha annunciato stanziamenti per 190 miliardi di riyal (circa 48 miliardi di euro) per sostenere l’economia e ha pronte iniziative  per aiutare le piccole e medie imprese ed altre attività economiche. Nei giorni scorsi ha inoltre deciso una prima  riduzione del 5% del suo budget per il 2020. E la Aramco, il colosso nazionale del petrolio messo qualche mese fa sul mercato finanziario, ha ridotto le attività nelle raffinerie per aumentare la produzione del petrolio.

Riyadh, impegnata in una guerra dei prezzi con la Russia, intende inondare il mercato di greggio sperando di poterlo vendere tutto perché a basso costo. Ma nessuno può garantirlo e al momento il dato certo è che l’oro nero ha lasciato sul terreno circa il 60% nel 2020. La casa regnante saudita non è destinata ad affondare facilmente: ha riserve di valuta per centinaia di miliardi di dollari ed investimenti miliardari in ogni angolo del mondo. Tuttavia il prezzo del barile a meno di 30 dollari è insostenibile nella regione non solo per l’Iran, impoverito dalle sanzioni economiche Usa, o per l’Iraq che ha milioni di giovani senza lavoro e che protestano da mesi, ma anche per la ricca Arabia saudita, gli Emirati e le altre petromonarchie.

Si spera perciò che le casse mezze vuote spingano principi e monarchi del Golfo a rinunciare, almeno in parte, all’import di armi spezzando il trend che ha visto il Medio oriente aumentare del 61% l’acquisto di aerei, navi, carri armati, blindati e armi di tipo dal 2015 al 2019. Una speranza che sarà vana se gli Stati uniti (il maggior esportatore), la Francia, la Russia e altri paesi chiederanno il rispetto dei contratti già firmati per la fornitura di armamenti nei prossimi anni.