La notizia di una morte annunciata non è meno dolorosa di una improvvisa. Perché allo sgomento del venire meno di una vita si sovrappone inevitabilmente il pensiero lancinante di come ci si deve sentire sapendo che il lume della propria vita si sta rapidamente consumando con larghissimo anticipo.

Francesco Cafiero ha mostrato molto coraggio, ci ha dolcemente impartito una lezione di come si può abbandonare questo mondo a soli 47 anni nella piena consapevolezza di quello che ti accade e allo stesso tempo con la mente proiettata verso un futuro che non vedrai.

Francesco sapeva che l’ultimo tentativo di operazione non aveva avuto esito alcuno, non era bastato a fermare il percorso impietoso della malattia. Ce lo aveva detto, ce lo aveva scritto in poche succinte e secche parole. Ma poi subito aveva cambiato discorso.

Voleva sapere cosa ne pensavamo delle prossime elezioni americane, se ragionevolmente si poteva sperare nella sconfitta di Trump e se questa poteva aprire nuove possibilità per lo sviluppo della pace, della civiltà e della democrazia nel mondo intero.

Voleva capire meglio se le misure messe in atto o promesse dalla Unione europea sarebbero state in grado di affrontare la crisi postpandemica e la recessione economica.

Si interrogava con noi sul futuro della nostra disastrata sinistra, se si poteva sperare di vederla rinascere con intelligenze ed energie nuove anche nel nostro paese.

Un uomo proiettato nel futuro che per quanto prossimo ben sapeva non appartenergli più. Ma il suo era appunto un atto estremo di generosità intellettuale.

Non è per sé stessi che si conducono grandi battaglie ma a guardare bene è sempre per coloro che verranno.

Francesco aveva attraversato nella sinistra milanese tutta la discussione che aveva scosso il Pd, fino a condividere le scelte di chi se ne è andato approdando in Sinistra Italiana. Lo aveva fatto non perdendo mai il contatto con la società civile così viva in particolare negli ultimi tempi in quel di Milano.

Per noi un duplice dolore: Francesco era figlio del nostro compagno Luca Cafiero, scomparso quattro anni fa, uno dei più noti leader del movimento studentesco milanese, e poi protagonista di una delle poche unificazioni felici della sinistra: quelle che indusse, nei primi anni ottanta, il Movimento Lavoratori per il Socialismo, di cui Luca era segretario, a fondersi con il Pdup. Insieme vivemmo la stagione dell’arroganza craxiana, e, riavvicinandoci a Berlinguer, la battaglia fra destra e sinistra all’interno del Pci.

Francesco praticava la politica in modo aperto, senza alcuna indulgenza verso forme di settarismo o di chiusura autoreferenziale.

Lo aiutava un carattere solare, una curiosità positiva per le persone, le cose e i sapori del mondo, una grande apertura culturale, con un’attenzione ai fermenti che venivano dall’Oriente, evidentemente frutto anche della sua unione con Elies, di nazionalità indonesiana.

Su un’ampia cultura filosofica aveva innestato una vera passione per la tecnologia in campo informatico.

Grazie a tutto ciò aveva conquistato grande stima e rispetto nel suo ambiente di lavoro in Telecom.

Il nostro, caro Francesco, è un ultimo ciao, non un addio. Perché in ogni dove e finché potremo ti porteremo con noi, come scriveva Paul Celan “Il mondo non c’è più, io debbo portarti”.

E ci stringiamo attorno ad Elies, a Sandra, a Olga, a Ilde.