Logicamente non è un blocco. Non lo fu neanche al tempo del socialismo realizzato, visto che a seconda della longitudine i partiti comunisti operavano con logiche diverse. A Varsavia c’era la chiesa cattolica che faceva quasi da contropotere, a Budapest si sperimentò il socialismo del goulash, a Praga il regime era più ortodosso. Allineato con Berlino est, sotto certi aspetti.

Insomma, prima e dopo l’89 i paesi dell’Europa centrale hanno marciato con passi diversi. Ma al tempo stesso, caduto il Muro di Berlino, c’è stato un processo che ha portato Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia, nate nel ’93 sulle ceneri della Cecoslovacchia, a sostenere comuni cause: l’ingresso nella Nato, quello nell’Unione europea e l’allocazione dei fondi strutturali comunitari, ma anche una maggiore integrazione tra Europa e Ucraina.
Polonia, Ungheria e Slovacchia con l’ex repubblica sovietica ci confinano. Se Kiev alza il livello dei rapporti con l’occidente – questo il ragionamento che accomuna i tre paesi – c’è da guadagnare in termini di sicurezza, come sotto il profilo economico.

I distretti polacchi, slovacchi e ungheresi addossati alla frontiera ucraina sono infatti meno progrediti di quelle occidentali. Una Kiev più agganciata all’economia europea aiuterebbe a ridurre gli squilibri regionali. Quanto alla Repubblica ceca, benché non condivida dogane con l’Ucraina, c’è da tenere conto del fatto che gli ucraini sono la sua componente straniera più grande.

Succede ora che sia proprio la crisi ucraina a divaricare le vedute dei paesi dell’Europa centrale. Non che si segnalino pulsioni contrarie alla convergenza d’interessi tra Bruxelles e Kiev. Ciò che spacca è il rapporto con la Russia. Polonia e Repubblica ceca lo hanno interpretato in senso conflittuale. Vedono nelle mosse russe in Ucraina una forma di revanscismo, da contrastare con nettezza. Si sintonizzano sulla stessa lunghezza d’onda i paesi baltici, che fino al 1991 sono stati inclusi nel perimetro territoriale dell’Unione sovietica. Tutte queste nazioni hanno sostenuto senza indugi le sanzioni economiche, entrate in vigore il primo agosto.
Ungheria e Slovacchia manifestano orientamenti diversi. L’Ucraina può fare accordi con l’Europa, a patto che le relazioni con la Russia non ne risultino penalizzate: questo in sostanza l’approccio. È così che i primi ministri dei due paesi, Robert Fico e Viktor Orban, hanno espresso nei giorni scorsi una netta contrarietà alle restrizioni commerciali varate dall’Ue (singolarmente anche con il loro appoggio), causa a loro volta dell’embargo russo sull’agroalimentare. Sono «senza senso», ha affermato Fico. «È come se l’Europa si fosse sparata sui piedi», ha tuonato Orban.
L’Ungheria e la Slovacchia esportano in Russia poco più di tre miliardi di dollari, a fronte di un export complessivo di circa novanta e settanta miliardi. Non sono cifre enormi, ma l’impatto delle sanzioni non si limita ai soli comparti colpiti. Incide sulla fiducia degli investitori, sullo slancio delle imprese e sugli stessi rapporti bilaterali. Orban, guarda caso, ha ottenuto dalla Russia un finanziamento ingente per lo sviluppo del nucleare. Teme che il progetto ne risenta.
Polonia e Repubblica ceca, paradossalmente, hanno in termini dimensionali relazioni più importanti con la Russia. I produttori agricoli polacchi e il comparto dei trasporti denunciano perdite importanti. Praga teme che il settore dell’auto, leva trainante del suo export (analoga la situazione in Slovacchia), possa perdere quote sul mercato russo. Ma a differenza di Budapest e Bratislava l’occhio non cade solamente sulla calcolatrice.