Mario Pezzella è da sempre un intellettuale raffinato e a tutto tondo, di come ormai ne compaiono sempre più raramente. Studioso di filosofia, letteratura, estetica, cinema, traduttore dal tedesco e dal francese, frequentatore dell’impegno politico e civile, ha sempre stretto queste diversità di campi e discipline nell’unità del radicalismo critico, d’ispirazione marxiana. Ricercando con ostinazione e acume vie d’uscita possibili dalla gabbia d’acciaio e dalla regressione, economica, ma, non di meno, morale, psicologica e antropologica indotta dalla diffusione, a piene mani, sulla scena mondiale dell’unica civiltà del «Capitale». Fedele a queste istanze, con una coerenza di percorso che conduce frequentemente alla solitudine e al disconoscimento, Pezzella ripropone oggi la ricchezza della sua riflessione estetico-filosofico-politica nel suo ultimo volume, Insorgenze, pubblicato da Jaca Book.

La tesi fondamentale del libro, di contro a letture solo economicistiche del mondo contemporaneo e presenti ancora in un certo marxismo sempre più residuale, è sulla natura teologica, «spirituale», del capitalismo globalizzato nel quale viviamo. L’anima del capitale è infatti «astratta», immateriale, volta solo al profitto e alla sua accumulazione: alla crescita della sua quantità iniziale di denaro e all’espansione, sempre più ampia, di questo ciclo. Pena la progressiva emarginazione ed espulsione dal mercato a motivo della concorrenza degli altri capitali. Fondato su una ricchezza astratta, il capitale è dunque un soggetto storico e sociale paradossalmente «immateriale», pronto a calarsi e a concretizzarsi in qualsiasi produzione di beni e di servizi, in qualsiasi occasione di guadagno finanziario e di borsa, in qualsiasi tipologia del mercato del lavoro, da quello più garantito dei centri dello sviluppo a quello semischiavistico del sottosviluppo o del turbosviluppo.

La teologia del denaro

La riflessione di Marx sul moderno, mediata da Pezzella con spunti fecondissimi tratti da Benjamin, Kafka e altri autori contemporanei va iscritta dunque, sorprendentemente, in una cornice, solo apparentemente materialistica, quanto invece teologico-spiritualistica: quale sistema di una società in cui protocolli astratti d’accumulazione forzata svuotano di senso le nostre vite. A questa cornice teologica dell’economico moderno, a questa teologia del denaro – assai diversa dalle indagini genealogiche-patristiche del teologico come oikosnomia di Giorgio Agamben, perché rivolta invece all’originalità attuale, mai verificatasi nella storia precedente, di un’«Astrazione Quantitativa come Spirito/Dio» – Pezzella dedica non a caso quattro capitoli centrali del suo volume: 1) Il debito 2) il gioco 3) il culto della merce 4) immagini di sogno.

Ma ogni dimensione teologica ha, com’è noto, al di là della favola della sua pretesa autosufficienza divina, un profondo bisogno dell’umano, del sensibile, del concreto per vivere e manifestarsi e questo significa per Pezzella comprendere e mettere a tema anche e soprattutto le modificazioni profonde del nostro modo di sentire e di percepire la vita, cui quella coabitazione forzata con la soggettività astratta e impersonale dell’economico-capitalistico ci conduce e ci obbliga. Così ad esempio già l’analisi dei quadri di Paul Klee, fin dal primo decennio del Novecento, mostra il disorientamento verso l’oggettività, che ormai assedia l’abitante della modernità. In quella pittura infatti le cose perdono la loro familiarità con l’uomo che le ha prodotte e acquistano un carattere perturbante e fantomatico: secondo quanto già si profetizzava nei celeberrimi passi marxiani sul feticismo e la vita autonoma delle merci.

Del resto sta proprio nella natura dell’uomo del postmoderno, o meglio sarebbe dire dell’ipermoderno, essere dominato da immagini e rappresentazioni solo di superficie: tanto più accecanti e totalitarie, in quanto esito di un’esperienza sia di lavoro che di non-lavoro, di consumo di media e d’informazioni, al cui interno il mondo del concreto, colonizzato e svuotato dalla logica dell’astratto e della sua accumulazione, appare ridursi a mera superficie, imbellettata, luccicante e altisonante, proprio a compensare la sua vuotezza interiore.

Così nelle pagine del libro si susseguono analisi di film come Il processo di Orson Welles, Taurus di Sokurov, I cancelli del cielo di Michel Cimino, a cui si affiancano delucidazioni di testi letterari come le Poesie di Paul Celan: in un insieme che rende più leggera l’esposizione e contamina l’asprezza della riflessione sul teologico con una raffinata e più distesa concretizzazione estetica. Per proporre infine Pezzella, sul piano della filosofia politica e di una possibile via d’uscita, terrena e laica, dalla teologia del capitale una singolare commistione tra la concezione del tempo, dell’ora, come tensione dialettica in Benjamin da un lato e la teoria dell’azione politica di Hannah Arendt dall’altro: riletta e fecondata alla luce di pensatori della democrazia radicale e insorgente come Miguel Abensour.

Resistenze emozionali

Il tempo del capitale è infatti il tempo della ripetizione ossessiva e demoniaca, che ripropone nel presente, senza novità e differenze, il passato. È il tempo che spegne l’irrompere e l’accendersi dell’emozionale, del nuovo, del vitale, perché nella sua logica eleatica d’insistenza sul sempre eguale, del profitto e della sua ossessione quantitativa, l’eracliteo è solo apparenza, il domani eguale all’oggi e l’oggi eguale allo ieri. È il tempo, in questa ripetizione dell’identico, della forclusione delle emozioni, dell’impossibilità cioè del forte sentire e della costrizione appunto a una vita di superficie, senza profondità emotiva. Si tratta allora per tutti coloro che resistono e s’oppongono a questa vita anaffettiva, ridotta alla riproduzione mesta e melanconica della propria soggettività amministrata da altri, di generare insorgenze, brecce, sospensioni del divenire. Fare dell’ora un precipitato di rottura della ripetizione e di concepimento del nuovo, a muovere dall’acquisizione definitiva che democrazia rappresentativa significhi ormai, e irreversibilmente, totalitarismo degli istituti e dei partiti della rappresentanza, volti solo alla riproduzione privilegiata del proprio sé.

Una realtà cioè complessiva della democrazia, come la viviamo nei paesi occidentali, come luogo dell’alienazione politica, come utilizzazione dell’universale pubblico per la riproduzione di un ceto privato, a cui non può che contrapporsi la riflessione della Arendt sulla qualità e il tempo della vera azione politica: la quale per l’autrice tedesca, diversamente dagli obblighi e le necessità del tempo di lavoro, immette nella storia una pluralità di esseri umani – ciascuno di essi individuati e tra loro non riducibili ad Uno – che progettano e creano, ogni volta in modo originale attraverso la condivisione e la distanza reciproca, lo spazio e la decisione pubblica.