La freccia del tempo si è definitivamente spezzata, facendo venire meno il continuum tra passato, presente e futuro. Per questo, vale la pena immaginare una possibile miscellanea tra futuro e presente, fantasticando su viaggi tra epoche diverse nella vana speranza di poter modificare il passato, evitando così «eventi» catastrofici che hanno da sempre scandito la storia del pianeta Terra. Di questo è stato sempre convinto William Gibson sin dai suoi esordi come agit-prop assieme a Bruce Sterling del cyberpunk, inteso come movimento letterario che voleva sovvertire il consolidato mondo della fantascienza. Per Gibson, le storie da mettere su carta non servivano certo a profetizzare il futuro, bensì a fornire strumenti, suggestioni, insomma produrre un immaginario capace di contrastare il dominio delle grandi corporation sulla vita di uomini e donne.

UNO SCRITTORE DUNQUE politico, anche se questa tag Gibson l’ha sempre rifiutata, perché ritenuta una gabbia che poteva limitare i movimenti e la fantasia nel raccontare il presente. In questo nuovo romanzo, dal titolo Inverso (Mondadori, pp. 521, euro 24) lo scrittore statunitense ma naturalizzato canadese è però consapevole che il gioco che faceva fondere passato, presente e futuro deve dotarsi di nuove regole e di un nuovo immaginario per poter funzionare. Molte delle tendenze che hanno animato i precedenti romanzi e racconti sono ormai divenute realtà.
La Rete si è trasformata in un medium universale; le grandi corporation hanno frequentemente aggirato, se non cancellato l’esercizio della sovranità su un territorio da parte dello Stato; l’identità personale e collettiva può essere cambiata come un abito, basta solo mutare il proprio nickname e comportarsi come il personaggio che si ama recitare. Venuto meno il confine tra vita dentro e fuori lo schermo, non ha senso parlare di realtà virtuale, bensì di realtà aumentata grazie alle tecnologie digitali. Per Gibson, la scommessa da giocare, senza avere nessuna certezza nel vincerla data la difficoltà di immaginare un futuro, è di poter fare la Storia seguendo una ricetta dove sono i noti i fatti che hanno determinato il punto di rottura nella freccia del tempo.
In Inverso Gibson evidenzia la sua conoscenza della network culture. Non c’è tema che in questi anni ha tenuto banco che nel libro non sia presente. Il potere arbitrario e di classe degli algoritmi (che servono cioè a riprodurre i rapporti sociali dominanti); il ruolo emergente delle nanotecnologie che danno una forma non astratta al postumano, cioè alla fusione tra tecnologia e corpo biologico; l’uso della Rete come tecnologia del controllo sociale. Su questo aspetto, Gibson strizza l’occhio a Philip K. Dick, senza però averne la dimensione allucinatoria e paranoica.

IL CONTROLLO è dunque parte integrante della vita collettiva sia nel futuro che nel presente. Ad esercitarlo sono polizie nazionali, militari, imprese e organizzazioni criminali, unite in un complesso militare-digitale che non esclude la competizione tra i diversi «controllori». L’inquinamento è sempre sullo sfondo. Inquietante è la descrizione di una enorme isola di plastica che viene assemblata e valorizzata economicamente, alludendo a performance artistiche pagate a caro prezzo. E poi c’è l’economia mondiale ridotta a una successione vorticosa di azioni finanziarie che hanno l’obiettivo di indirizzare lo sviluppo tecnologico, sociale e produttivo. I viaggi nel tempo descritti da Gibson servono così a raccogliere informazioni per condizionare attività finanziare nel passato e nel futuro.
Infine, c’è il grande tema dell’antropocene, cioè il dominio assoluto degli umani sulla natura che produce cambiamenti irreversibili destinati a sfociare in una catastrofe planetaria che vedrà scomparire molte specie animali, vegetali e gran parte della popolazione mondiale. Da qui la produzione in laboratorio di animali e piante altrimenti destinate all’estinzione; e di neurorganici e homunculus: qui Gibson sembra aver letto tanto i testi sul postumano di Rosi Braidotti che le analisi sulla tensione conflittuale tra antropocene e capitalocene del filosofo statunitense James Moore.
Un romanzo quindi molto denso, che ha un avvio lento, oscuro, criptico, di difficile lettura (il traduttore è l’ottimo Daniele Brolli, ma in questo caso vale la pena leggere il libro in originale, perché pieno di un gergo tecnofilo non adatto a una traduzione letterale) e che funziona come un puzzle che viene composto capitolo dopo capitolo, attraverso i frammenti di informazione ricavati dai dialoghi dei protagonisti. Sui quali occorre soffermarsi non poco.

DA UNA PARTE, ci sono oligarchi criminali russi che stabiliscono una alleanza con una superpoliziotta con un passato da agente segreto, un addetto alle pubbliche relazioni del conglomerato sviluppato dagli oligarchi, in lotta feroce con dei concorrenti per il controllo dell’economia mondiale. Vivono a Londra, diventata ormai un metropolitano parco a tema, dove si danno rappresentazioni di epoche passate facendo leva sulla presenza di milioni di neurorganici che usano software ricavati dall’intelligenza artificiale.
In questo futuro, nato dalla catastrofe ambientale chiamata jackpot, chi fa affari, individua una frazione del passato per ricavarne informazioni utili sia per i business delle epoche trascorse che per quelli nel loro presente. È su questo crinale che il romanzo di Gibson mostra limiti: il passaggio tra futuro e passato non sempre è lineare e non bastano certo le puntuali descrizioni dei neurorganici (come funzionano, come possono essere «abitati» temporaneamente da umani) a rendere facile la lettura.

CI SONO POI GLI UMANI del passato. Vivono negli Stati Uniti, in uno stato deindustrializzato e povero. L’economia locale si basa sulla produzione e spaccio di droghe sintetiche. Molti si sono arruolati nei marine e hanno combattuto in una delle tante guerre decretate dai reggenti di un impero in declino. In molti sopravvivono grazie al pulviscolo di lavoretti che si sviluppa attraverso la produzione su piccola scala di merci grazie alle stampanti 3d. Più che una alternativa al capitalismo le fab che nascono e muoiono come funghi servono solo a una precaria economia della sopravvivenza.
In questa situazione, Gibson abbandona decisamente il genere della fantascienza seppur sociale e imbocca la strada dell’hard-boiled. Con Inverso – il titolo originale, The Peripheral, era più efficace, perché è il termine usato per indicare i neurorganici e le attività finanziarie ai margini del grande casinò dell’economia mondiale – Gibson manda un segnale preciso. Il cyberpunk è morto. Voleva segnalare il cambiamento in atto; c’è riuscito, alimentando immaginari collettivi ribelli e mainstream, ma adesso è tempo di guardarsi attorno e provare a rappresentare il mondo che c’è e che ci sarà.

È QUESTO UN ROMANZO sulla implosione delle tecnoutopie. Certo, Gibson continua a dire che la scienza aiuterà a risolvere i problemi che attanagliano la vita sul pianeta, ma lo scrive con parole dimesse, poco convinte. La Rete non è stata quella frontiera elettronica dove costruire un mondo migliore. E non è stata neppure la leva per costruire un mondo postcapitalista. Neppure i sogni dei neoliberisti di costruire l’uomo nuovo (l’individuo proprietario) si sono realizzati, trasformandosi in un incubo scandito da povertà e alienazione diffusa.
Di tutto questo è consapevole William Gibson, che non sa però uscire dal labirinto che tiene prigioniera la storia raccontata in questo romanzo. Il passato, il presente e il futuro sono infatti ridotti a convenzioni sociali e il futuro è ridotto a asettica e algida riproduzione del presente, amministrato da chi vuol trarre profitto proprio dalle differenze temporali rese evidenti dalla Rete. In fondo, gli algoritmi che gestiscono, facendo fare enormi profitti alle imprese, le transazioni finanziarie e delle borse valore fanno leva proprio sulla manciata di secondi che può essere gestita da una macchina informatica. È a questa realtà che Gibson si arrende, in attesa, forse, di trovare una via di fuga dalla miseria del presente.

SCHEDA

Nato nel 1948, Willliam Gibson è uno degli scrittori più tradotti nel mondo. Il suo nome è legato al genere del cyberpunk, il movimento letterario che per tutti gli anni Ottanta e Novanta del Novecento raccontò le trasformazioni sociali, economiche e culturali simboleggiate dal personal computer prima e dalla diffusione di Internet poi. Assieme a Bruce Sterling è ritenuto il fondatore del cyberpunk. I suoi primi romanzi – «Neuromante», «Giù nel cyberspazio» e «Mona Lisa Cyberpunk», tutti pubblicati da Mondadori – sono ritenuti, erroneamente, i capostipiti del cyberpunk. Gli elementi centrali di questo movimento letterario si possono trovare nella raccolta di racconti «La notte che bruciammo Chrome» (Mondadori) dove compaiono i protagonisti assoluti dei suoi primi romanzi, qualificati come i cowboy dell’interfaccia o della tastiera, ma è chiaro i riferimenti agli hacker. Il sodalizio teorico con Bruce Sterling darà via anche a un romanzo, «La macchina della realtà» (anche questo pubblicato da Mondadori). Trasferitosi in Canada per non fare il militare e dunque partecipare alla Guerra in Vietnam, ha sempre presentato la fantascienza come un genere letterario che usa il futuro per raccontare il presente, con i suoi conflitti, forme di vita e esercizio del potere da parte delle grandi corporation. Su questa linea sono anche i romanzi degli anni anni Novanta e duemila: «Luce Virtuale», «Aidoru», «American Acropolis», «Guerreros» (tutti pubblicati da Mondadori), «Zero History» (Fanucci) deve le tematiche del cyberpunk sono usate per narrare la globalizzazione, la privatizzazione dello spazio pubblico e urbano, il declino degli Stati Uniti come unica superpotenza economica, militare e politica.