La forza della premonizione. Così definisce Lorenzo Canova il ciclo sul ’68, la costellazione politica dell’«immaginazione al potere» (e anche del suo fallimento) cartografata da Franco Mulas nelle sue opere. Perché in quei lacerti di pittura (dal tratto iperrealistico a volte e altre completamente surreale, puntando verso una dimensione onirica che è soprattutto una istanza critica del presente) si intrecciano le storie del pianeta in piena deflagrazione, eppure Mulas non ha voluto divulgare nessun proclama ideologico. Ha preferito lasciare delle pagine aperte, a futura memoria e per le scritture del tempo che verrà.
La mostra Franco Mulas ’68, visitabile alla galleria André di Roma fino al 7 aprile (a cura di Lorenzo Canova, con testi di Enzo D’Arcangelo e Tommaso Di Francesco), può anche essere letta come una sequenza impazzita di fotogrammi, una «pellicola» che disseziona – in controluce – il potere e fa pulizia di ogni tentazione celebrativa. Non c’è spazio per la nostalgia di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Spesso, sui muri d’Europa, intorno alla Bastiglia, sulle scalinate inpietrite, dentro ai grovigli vegetali di giungle urbane, l’individuo ribelle è solo, un Tantalo moderno tormentato dal desiderio di essere accolto in un mondo rovesciato, di certo migliore, che però non s’invera mai. Così, l’antieroe Gilles guarda in camera con la bandiera arrotolata in attesa che la «cronaca» degli eventi (e un loro possibile racconto) prenda una piega «amica». Volta le spalle alla violenza, se ne va ramingo, sospendendo il giudizio. Come testimonia Di Francesco, in quei ritratti disorientati, mascherati, che bandiscono l’irruenza, c’è «l’inizio dell’antropologia contempoarnea del malessere profondo, ineludibile, narrata con il colore lucido che vuole rimanere e non offuscarsi». Nel cinquantenario del ’68, i quadri di Mulas sono un controcanto composto.