«Prima che un film su un camionista, Tir è film su un paradosso: quello di un lavoro che ti porta a vivere lontano dalle persone care per le quali stai lavorando. Ma più che fare uno spaccato sociologico mi interessava raccontare un personaggio. Volevo riprenderlo in un momento di crisi personale, quando si vede obbligato a compiere una scelta non solo pratica, ma etica ed esistenziale». Alla realizzazione di Tir, terzo film italiano in gara, che ieri ha chiuso il concorso del festival di Roma, Alberto Fasulo (che ne firma anche la sceneggiatura insieme a Enrico Vecchi, Carlo Arciero, Branko Zavrsan) ha lavorato più di quattro anni. Un tempo lungo di viaggi e di incontri nel corso del quale sono capitate tante cose, anche trovarsi di fronte a difficoltà così grandi che per superarle ci vogliono testardaggine, coraggio, e una speciale passione. Per esempio: il camionista che aveva ispirato in partenza il racconto se ne è andato in Australia – era rimasto disoccupato. Il secondo, dopo un anno e mezzo di preparazione insieme, ha deciso che non voleva più farsi filmare lasciando il regista da solo coi suoi dubbi. Ma questa è anche la scommessa della realtà – Tir è nato come un documentario – in cui la vita si trasforma, esce fuori dalle cooordinate stabilite, si scontra col desiderio di chi filma, o almeno lo mette in discussione.
É stato a questo punto che è arrivata la scelta di una dimensione narrativa, che permette eticamente di colmare i «vuoti» del reale, e al tempo stesso di non rinunciarvi. Tir si colloca qui, sul bordo di quella distinzione – fin troppo pretestuosa – tra «realtà» e «finzione». Ed è anche la conferma di un cinema italiano resistente, che sta crescendo fuori dalla dimensione più convenzionale, e riesce così a trasformare l’indipedenza produttiva del basso costo (Fasulo lo ha prodotto con la sua Nefertiti Film) in un allenamento prezioso per la testa e per lo sguardo.
Al centro della storia c’è Branko, un uomo non più giovanissimo che ha lasciato il lavoro di insegnante in Croazia per salire su un camion. Ha bisogno di soldi, i figli, la casa, la famiglia, e la paga a scuola è inesistente. Come lui ce ne sono tanti di camionisti occasionali: qualche anno con l’idea di mettersi a posto gli fanno sopportare un lavoro massacrante, umiliazioni, condizioni di vita durissime e il «paradosso», appunto, della distanza da casa. Branko ha come compagno di camion Maki, un camionista più giovane di lui, che quel lavoro non lo sostiene più. Ha un figlio piccolino, vuole vederlo crescere invece che sfinirsi su e giù per autostrade anonime in attesa di un carico. Maki un giorno esplode, Branko invece va avanti con determinazione, anche se questo gli costa liti con la moglie, e soprattutto un abbrutimento personale di solitudine e indifferenza.
Rumore bianco, il film (molto potente) che ha rivelato il regista, era un viaggio sul Tagliamento lungo il quale Fasulo, che è friulano, componeva un l’affresco corale di un presente in contrasto con la propria memoria. Era anche un film sulla lingua, e sui suoni, tutti aspetti che si ritrovano, seppure in modo differente, in questo. Anche Tir infatti è viaggio esistenziale -e girato per lo più non in italiano – un road movie nel senso più alto, le cui atmosfere definiscono un punto di vista sul mondo tutto da ricostruire. E i frammenti non sono più facilmente collegabili, ma si presentano come parti avulse, disomegenee, persino non comunicanti.
Non c’ un orizzonte infinito di miti e di eroi sulla strada di Branko, e lui ci appare piuttosto come un recluso, separato dalla realtà che scorre fuori dal vetro della sua cabina. A volte vi entra con la voce al telefono della moglie con cui litiga o ride, del figlio che gli chiede soldi, la ragione per cui è partito. Per lo più però è solo la ripetizione dei gesti del lavoro: attese, carichi, consegne, migliaia di chilometri macinati nel nulla di una notte o di un giorno che finiscono per confondersi.
Fasulo rimane con la sua macchina da presa insieme a Branko che è un attore (Branko Završan, lo abbiamo visto in No Man’s Land) e nel film «diviene» un camionista. Ma ancora una volta poco importa, perché il confine oltre il genere praticato dal regista permette una narrazione vera e in profondità.
Nell’abitacolo del tir ci sono lampi di un privato sensibile, anche se sostazialmente di Branko e di Maki non sappiamo quasi nulla, soltanto le parole, o gli sfoghi, legati al loro fare. Poi ci sono le conversazioni al telefono dalle quali conosciamo ualcosa in più di Branko sulla sua vita di «prima». Non è però la retorica del sentimentalismo che cerca Fasulo, e in questo senso Tir (lo distribuirà la Tucker Film) non è la storia di un camionista. La dimensione fisica senza identità, attraversata dal film, diviene piuttosto il racconto del nostro tempo: cosa vuol, dire esserre sfruttati, e accettarlo perché è quello che si è deciso di fare. Essere guardati male perchè più schiavi degli altri. «Crumiri» gridano agli slavi gli italiani accusandoli di portargli via il lavoro, dimenticando che è successo tutto tanto tempo fa, quando si è cominciato a utilizzare il basso costo del lavoro altrove, nei paesi poveri, pensando di essere immuni dagli effetti di ritorno. Senza protestare per le differenze di trattamento mentre le ditte cominciavano a utilizzare la manodopera meno cara e meno garantita.
Precariato, schiavitù del corpo, perdita dei diritto del lavoro e della complicità di classe: in quel minuscolo spazio si manifesta il conflitto del contemporaneo tradotto in una narrazione cinematografica, e in un personaggio che non incarna nessuna delle categorie predilette oggi dal cinema del reale per mostrarlo.
Potremmo essere ovunque e da nessuna parte, ma non è questo il senso della globalizzazione? Fasulo traduce il suo «falso movimento» in un vero movimento cinematografico, che ci dice di avere davanti un regista, la cui capacità è spiazzare il nostro sguardo chiedendogli di riposizionarsi. Il flusso della vita (grazie al complice montaggio di Johannes Hiroshi Nakajima) è lì, nelle luci distratte di posti che non riusciamo a definire, in una sorta di sfida dove non si vince nulla. Nell’immagine di un cinema che sa reinventare se stesso.