C’è differenza tra una “normale” giornata difficile in Borsa e un crollo mondiale, «un lunedì nero», «una tempesta perfetta» o le altre locuzioni drammatizzanti usate per descrivere il botto planetario che si è verificato ieri sui mercati finanziari a seguire il corso del sole. Il tuffo al cuore dei trader è arrivato all’apertura delle contrattazioni sulla principale piazza cinese, Shanghai, che ha aperto i battenti perdendo tra il 3 e il 4%. Quando anche la barra di oscillazione obbligatroria del 10% non ha funzionato, è stato chiaro che il paracadute statale non si era aperto: caduta libera. Ed è subentrato il panico.

Dopo una fermata per eccesso di ribasso, l’indice-guida, il Shanghai Composite Index, ha chiuso a 3.209,91 punti, in calo dell’8,49%, bruciando in un colpo solo i guadagni dell’intero anno. Un tonfo del genere non si vedeva dal 27 febbraio del 2007, all’inizio della grave crisi finanziaria che i governi di tutto il mondo speravano di essersi appena lasciati alle spalle.

Da Shanghai l’ondata ribassista si è propagata, veloce e inesorabile, alla più piccola Shenzen (in perdita di oltre il 7,7% e con il Chinext, l’indice delle aziende hi-tech, in calo dell’8), quindi a Hong Kong (- 4,8 per l’indice Hang Seng) e poi a raggera sui principali mercati asiatici. Il Nikkei di Tokyo ha perso il 3,21%. La borsa di Taiwan è crollata del 7,46%, la peggiore seduta mai registrata nella sua storia.

L’effetto domino si è riversato sulle valute dei Paesi emergenti. La rupia indonesiana e il ringgit della Malesia sono tornati al valore di cambio del ’98. Quindi il ciclone si è abbattuto sui futures petroliferi e sulle Borse occidentali. Con Francoforte, cuore finanziario d’Europa, che alla fine ha perso il 4,7% e infine con frenate meno brusche del Dow Jones (-1,15%) e del Nasdaq (-0,4) a Wall Street.

Non si può dire che non ci fossero stati segnali di ciò che poteva accadere. È dalla metà di giugno che Pechino porta avanti interventi di contenimento verso reazioni scomposte di fronte all’attesa di una crescita produttiva cinese significativamente inferiore alle previsioni. Ultima delle misure messe in atto, l’annuncio – domenica scorsa – di sdoganare per la prima volta i fondi pensione sul mercato dei titoli.

Con l’obiettivo dichiarato di adeguare i rendimenti dei lavoratori in previsione di un invecchiamento della popolazione, il governo ha dato loro il via libera a investire fino al 30% del capitale in azioni. Una manovra per contrastare l’ondata di vendite, puntellare i prezzi dei titoli e arrestare le fughe di capitali, stimata nell’ordine dei 3.500 miliardi di renminbi, pari a 550 milioni di dollari.

L’annuncio non ha fatto argine al dilagare della paura sull’andamento dell’economia della Repubblica Popolare, in particolare della sua industria tradizionale, magari proprio in rapporto all’evoluzione demografica che si prospetta.

Non è solo la contrazione delle esportazioni (- 8%), o lo stallo dei consumi interni, con la vendita di auto, in particolare di lusso, ridotte del 7%, a preoccupare. In un Paese dove il welfare è ancora quasi inesistente, la prospettiva di un invecchiamento della popolazione attiva non dev’essere un elemento di serenità.

Appaiono profetiche le parole di Hu Xingdou, docente di economia all’Institute of Technology di Pechino, su ciò che sta accadendo. «La Cina – dice – sta cercando di adeguarsi a un’economia in trasformazione ma sarà difficile migliorare la situazione».

E fa presente che un rallentamento della crescita è possibile che produca un allargamento delle distanze tra la parte ricca e la parte povera della popolazione.

L’unico salvagente che – secondo il Wall Street Journal – può metter in campo la Banca del Popolo è un nuovo taglio di mezzo punto del coefficiente di riserva obbligatorio per le banche (Rrr), liberando liquidità per 100 miliardi di dollari, potenzialmente utili a rilanciare i prestiti e il mercato immobiliare, accelerando l’andamento dell’economia.