L’ennesima blindatura delle larghe intese, arrivata dal Colle più alto, riconsegna il Pd ai suoi tormenti congressuali. La vita del governo Letta resta appesa alle decisioni di Berlusconi, ma la novità della pausa ferragostana sarebbe che la crisi dell’esecutivo si allontana, almeno per ora. E che il governo, come ha sottolineato subito il premier Enrico Letta, dopo le parole di Napolitano si sente «più forte». Del resto, nel Pd, anche i più determinati fautori del voto immediato non si spingono a ipotizzare le urne prima della prossima primavera, se non altro per ‘concedere’ realisticamente al parlamento il tempo di riformare la legge elettorale. Ma il voto a primavera, fatalmente, rischia di essere un’ottima ragione per rimandare il congresso democratico. E non al vituperato febbraio 2014, come al momento confidano alcuni fidatissimi dell’ex segretario, ma al febbraio 2015.

Con la crisi rinviata, infatti, in teoria si dovrebbero infiacchire le ragioni di chi, nel partito, ha una convinzione di tipo manzoniano: questo congresso non s’ha da fare. L’autunno dovrebbe essere lo spazio del dibattito congressuale. Ma l’autunno democratico comincia tardi (con l’assemblea del 20 e 21 settembre), il tesseramento va chiuso e messo in sicurezza da ricorsi e verifiche. Ci vuole tempo, insomma. «La smettano di vivere con terrore l’idea di svolgere il congresso. Se non c’è la crisi, ci lascino fare questo dibattito. Anche per capire come rimettere in piedi un efficace rapporto con il governo», attacca il giovane turco Matteo Orfini.

Ma nel palazzo del Nazareno, alla vigilia della pausa ferragostana, c’è chi ragiona sull’impossibilità di svolgere l’intero percorso congressuale entro l’anno – altro che 24 novembre, una data indicata forse solo per poterla contraddire alla prossima occasione ufficiale – e oltre. E se salta la motivazione della cagionevolezza della salute del governo, del resto tutta ancora da verificare, ai fini di un rinvio presto verrà opposta la necessità di un dibattito disteso nella base, così come è stato nel 2009: insomma una nobile ragione di democrazia interna. Altri, un pezzo della sinistra del partito, parlano invece dell’esatto contrario, ovvero della ’sospensione della democrazia interna’, visto che l’assemblea nazionale di settembre potrebbe certificare il rinvio delle assise all’anno nuovo, ormai abbondantemente fuori dai tempi statutari. Con tutte le incognite del caso.
D’altro canto se il governo Letta dovesse per il momento sopravvivere alla tempesta berlusconiana, comunque si presenti, la battaglia congressuale democratica perderebbe di urgenza anche per Matteo Renzi, la cui candidatura a segretario del Pd non è ancora ufficiale ma che certo gli interessa – per sua quasi esplicita ammissione – come trampolino per le primarie per palazzo Chigi: del resto che interesse avrebbe invece a farsi logorare troppo a lungo dai meccanismi di una rifondazione del suo partito che si preannuncia come un’operazione complessa e destinata a impegnare – e forse, secondo tradizione democratica, logorare da subito – il leader che se ne aggiudicherà la direzione politica?

Ecco perché la blindatura di Napolitano restituisce per intero il Pd alle sue contraddizioni. E la pausa estiva rischia di essere lo spazio delle trattative fra leader di correnti, e proprio sullo svolgimento del congresso. E gli interessi della parte bersanian-epifaniana, con la benedizione del premier, di rimandare il congresso per garantire la stabilità del governo almeno fino a febbraio, potrebbero coincidere con quelli di Renzi, per il quale la prospettiva di caduta del governo è la precondizione della corsa. In caso di precipitazione alle urne, le assise Pd certo passerebbero in secondo piano. Il 2015 potrebbe essere il classico ufo avvistato a Ferragosto, ma anche no.