Nessun libro di Nietzsche si è prestato più del suo Così parlò Zarathustra a manipolazioni e appropriazioni; nessun altro mostra un’effrazione altrettanto patente delle regole del buon filosofare; non c’è concentrato paragonabile di tanta ironia e sublime grandiosità. Mazzino Montinari scriveva dello Zarathustra che, avendo più di ogni altra opera contribuito alla fortuna di Nietzsche, proprio perciò richiede, più degli altri suoi libri, la confutazione preliminare di una lunga serie di equivoci.

L’imponente Saggio sullo Zarathustra (Aragno, pp. 862, € 40,00) di Sossio Giametta, tra i principali traduttori di quella nuova edizione critica delle opere di Friedrich Nietzsche che, inaugurata da Mazzino Montinari e Giorgio Colli nel 1972, portò ad una radicale rivalutazione del filosofo dopo gli anni delle appropriazioni naziste, è un grandioso tentativo di fare i conti con questo enigma.

Summa di una vita di studi, ricerche e vivi confronti testuali, l’opera di Giametta è molto più di uno strumento di lavoro e di studio: è la testimonianza di un pensiero vivente, che si è saputo confrontare con rigore e rara schiettezza con uno dei più grandi enigmi di quel grande enigma della modernità che è il pensiero contraddittorio, spesso sconvolgente di Friedrich Nietzsche.

Forse per i toni profetici ai quali indulge, forse per il valore simbolico che aveva assunto negli anni delle due guerre, o forse per i facili fraintendimenti ai quali può condurre una sua lettura affrettata, a partire dagli anni Sessanta lo Zarathustra è stato molto ridimensionato dalla critica. Venne stampato in milioni di copie auf Kriegspapier per rinvigorire gli spiriti dei soldati al fronte, durante la prima guerra mondiale: basti questo a lasciar immaginare fino a che punto la sua presenza simbolica fosse ingombrante per avviare una nuova stagione di studi nietzschiani, capace di liberare il filosofo dalle pesanti ipoteche del suo primo successo in ambito germanico.

Non è quindi un caso se la rivalutazione partì dall’Italia e dalla Francia. Il Nietzsche dissettore genealogico dei poteri e della morale prevaleva ora sul profeta del «superuomo», il pensatore del divenire affermativo sull’esaltatore della «bionda bestia» germanica, il critico della metafisica sull’ideologo del nazionalsocialismo: questa era la nuova immagine di Nietzsche negli anni Sessanta.

E in questo contesto l’eredità dello Zarathustra non poteva non apparire problematica; ma i fraintendimenti non dipesero forse solo da interpreti malevoli. Lo stesso Nietzsche, quando affermava di aver fatto con lo Zarathustra «il più grande regalo all’umanità», contribuì alla sua impropria canonizzazione a «quinto evangelo».
Non fu infatti difficile proiettare su queste affermazioni quell’immagine profetica del filosofo che tanto doveva nuocere alla sua comprensione, prima ancora che alla sua reputazione. Proprio per assicurarsi di non cedere nemmeno un po’ alla tentazione di assecondarne l’afflato poetico e profetico, Montinari scelse di riservare a sé la traduzione e la cura dello Zarathustra. Questo non fermò però Giametta che sarebbe tornato a lavorarvi sopra a più riprese, non solo curandone nel 1985 una nuova traduzione, ma dedicandole anche un ampio commentario e diversi contributi critici.

Dalla summa di questi sforzi emerge il «saggio» presentato da Aragno, che non raccoglie quindi solo il commentario e diversi contributi sparsi, ma li integra in un discorso complessivo, che nella prima metà del libro inquadra l’opera nella vita spirituale dell’autore e, più in generale, dell’epoca moderna. Il procedere delle argomentazioni di Giametta testimonia anzitutto quella sicurezza ermeneutica che è frutto di decenni di intensa frequentazione del testo nietzschiano. La sua scrittura chiara e sicura ha uno spontaneismo quasi «ingenuo», privo di sofisticazione «sentimentale», mentre si muove con grande padronanza e quasi confidenza tra i suoi autori prediletti, da Spinoza a Croce, da Goethe a Hölderlin.

Per Giametta, proprio l’eccentricità dello Zarathustra rispetto alla produzione precedente e successiva del filosofo, testimonierebbe non dell’eccesso, ma anzi dell’equilibrio raggiunto: il suo linguaggio poetico, la sua enfasi sublime, la sua postura esoterica non sarebbero cedimenti a un’inclinazione narcisistica, ma anzi il risultato della piena e momentanea padronanza di quelle tendenze contrapposte e contraddittorie che si agitavano nell’animo di Nietzsche.

Dopo lo Zarathustra, scrive Giametta, «quella specie di sia pur instabile equilibrio si perdette» e anzi «la sostanza del suo lavoro andò irrimediabilmente deteriorandosi». Solo qui Nietzsche sarebbe giunto «a celebrare il trionfo della sua più vera natura». Nella sua forma attuale il Così parlò Zarathustra è l’aggregato postumo di diverse fasi e tendenze: la prima delle quattro parti dell’opera doveva essere quella definitiva, solo successivamente fu seguita dalle altre due, e dopo la morte del filosofo integrate della quarta. Zarathustra guadagna dunque l’unità di un’opera più «dall’aspirazione» che dal risultato, testimoniando anzi di una perenne tensione tra critica e slancio poetico, tra natura religiosa e positivismo critico.

Se nello Zarathustra «il lavoro di psicologo, di moralista e di poeta» – scrive Giametta – si concretizza nella maniera più libera e fresca, non perciò tutto «è valido», anzi appare spesso «impastato di (alta) verità ed errore, come del resto di poesia e di retorica».