David Foster Wallace dichiara, in una delle sue più note e citate interviste, che la letteratura deve confortare chi è a disagio e mettere a disagio chi è in una situazione di conforto. C’è però modo e modo di realizzare questo assunto: sul piano stilistico, della storia che si inventa, del linguaggio impiegato per raccontarla.

Lo scrittore e saggista italo-svizzero Luca Saltini sceglie di narrare una storia in cui si rispecchia assai bene il tempo che viviamo: un’epoca intessuta di arricchimenti spericolati, popolazioni sempre più povere, capitalismo selvaggio e globalizzante.

La vita del dirigente del settore petrolifero è la protagonista del quarto romanzo di Luca Saltini Una piccola fedeltà (Giunti, pp.276, euro 18). Più che lo stesso dottor Castiglioni come persona, il cuore del racconto sono infatti le vicende, le riflessioni, gli incontri, i viaggi in Romania, la conclusione in una confortevole clinica di lusso. Il procedere della storia si muove fra passato rumeno/milanese e presente ospedaliero, due sottotempi che si alternano segnando nel profondo il tempo unico che Castiglioni vive per svariati decenni.

Nell’incipit si entra subito nel racconto: ma in punta di dita (dello scrittore) e di occhi (del lettore). Al protagonista è sufficiente affondare le dita in un vaso di gerani, posto sul davanzale della stanza in cui è ricoverato, per far sì che si materializzi la figura pur evanescente della donna che ha amato. L’unica, giovane, bellissima, rumena, povera contadina, mai sposata, abbandonata nel paese in preda alla rivolta anti-Ceausescu del 1989-90.

La passione travolgente ha in un certo senso il proprio contraltare nella travolgente distruzione del dominio dittatoriale di Ceausescu e della moglie. La Storia dialoga in modo sofferto e arrogante con la storia dell’amore per Achilina; condiziona i personaggi che si trovano alla fine a muoversi come burattini. Come se il Tempo delle lotte, dell’odio, della morte non fosse occupato dagli umani. Ma è pura illusione: in realtà, Castiglioni deve fare i conti con il non aver mantenuto la promessa di portare via con sé la ragazza. La giovane donna che era riuscita a scuotere le deboli convinzioni (mai state certezze) del manager: il cinismo intollerabile degli affari, la corruzione del potere politico, il profittarsi dell’economia debole e di una popolazione inebetita da decenni di culto della personalità.

In una vita il punto non è il riscatto ma la presa di coscienza, spesso lenta e sofferta, del dolore arrecato a chi si ama e della possibilità, forse, di porvi rimedio. Soprattutto il dolore peggiore, quello involontario, causato dall’ignavia, dal nascondersi nel confortante grigiore quotidiano. Grigia è Bucarest in preda alla miseria, grigia è Milano in cui si rifugia il gran borghese Castiglioni, grigia la nevrosi che interpreta come la forza maligna che lo trattiene dal tornare e portar via Achilina verso un vivere altro.

Alla fine, il «lui» che parla per tutto il libro realizza che può lavorare, guadagnare, far girare affari e aiutare così l’amico Lenz. Il narratore scopre definitivamente l’altro da sé: non poteva essere Achilina perché Castiglioni non era abbastanza maturo, adulto, forte. Adesso sarà Lenz a ricevere quest’impegno dell’amico e collega. La piccola fedeltà li lega come l’essenza che allontana l’esistere dal grigiore, dalla condanna all’insignificanza.