A scuola ci hanno insegnato che il monopolio politico dello Stato si basa su alcune funzioni fondamentali: la difesa, battere moneta, garantire la giustizia, riscuotere le tasse. Con l’Ue, alcune di queste funzioni hanno già assunto una dimensione sovranazionale.

Altre, come la sanità, l’ambiente, il bilancio, la difesa, a causa della pandemia, dei flussi migratori e delle tensioni geopolitiche, si stanno spostando, più o meno rapidamente, nello spazio europeo. Si restringono dunque, con buona pace dei sovranisti, i poteri dello Stato-nazione. I suoi apparati subiscono gli effetti della globalizzazione dell’economia, dell’impatto delle innovazioni tecnologiche, dell’estrema mobilità della ricchezza, delle persone e delle merci. La lex fisci (riscossione delle tasse) è forse quella che, in Italia, ha risentito di più delle trasformazioni intervenute. A fronte di una struttura della ricchezza, in gran parte finanziarizzata e dematerializzata, la macchina del fisco si è inceppata. I criteri di progressività e di equità si sono smarriti. I governi hanno elargito trattamenti di favore a varie categorie di contribuenti, spesso le meno bisognose. Ne è scaturita un’erosione costante di base imponibile. L’evasione è stata contrastata, si fa per dire, con l’arma dei condoni!

Intanto assistiamo a un dibattito surreale in cui la questione fiscale è derubricata ad un problema di mera «riduzione» delle imposte. Come se non vivessimo in un paese in cui la spesa pubblica continua ad aumentare e, anno dopo anno, si ricorre ad un aumento del debito per far fronte al disavanzo.

È bene essere chiari. Lo stato della finanza pubblica italiana è tale che proposte di tagli indiscriminati delle tasse o di flat tax sembrano fatte apposta per cantare il de profundis ad uno stato sociale, già ridimensionato e insufficiente. La questione fiscale è invece questione politica par excellence. Non si ricostruisce una politica fiscale senza definire una diversa dimensione spaziale e istituzionale del prelievo. La sovranità fiscale andrebbe, cioè, articolata e suddivisa tra organismi sovranazionali (Ue), Stati nazionali ed enti locali, secondo una logica tendente a «seguire il denaro» (follow the money). Oggi ci sono tanti Stati e un solo mercato, che si muove a livello globale. L’accordo sulla global minimum tax, che obbliga le grandi multinazionali a versare una quota d’imposta (minimo il 15 per cento) nei paesi in cui operano effettivamente, pur insufficiente, indica la giusta direzione. Altri accordi si renderanno necessari, a livello europeo, sia per restituire il debito contratto con il Next Generation Eu sia per allargare il campo degli interventi comuni, a partire dal contrasto dei cambiamenti climatici.

Per quanto riguarda lo Stato, la riforma fiscale dovrebbe avere come bussola il ripristino della progressività su tutti i redditi, la semplificazione legislativa – sfoltendo la miriade di bonus, incentivi e sussidi (tax expenditures) – il recupero di base imponibile. L’Agenzia delle entrate possiede mezzi e tecnologie per intercettare non solo la ricchezza materiale (grande proprietà, beni di lusso, consumi opulenti), ma anche quella “immateriale”, oggi prevalente. I grandi patrimoni finanziari sono raccolti e registrati sui «conti d’ordine» di banche, società d’intermediazione mobiliare (Sim), società finanziarie, fiduciarie. Ci sono, poi, gli alti profitti generati dal “furto” del demanio. Le grandi reti di comunicazione, digitali, energetiche, idriche, stradali, che scorrono sul suolo e nel sottosuolo, sono state realizzate con imponenti investimenti pubblici, senza che lo Stato e i cittadini ricevano un ritorno economico.

Spesso e volentieri le concessioni pubbliche ai privati – dall’acqua all’etere, ai rifiuti, alle spiagge, alle autostrade – sono diventate galline dalle uova d’oro per i gestori. Una spoliazione sistematica di beni pubblici e demaniali, impropriamente chiamata «concorrenza». Ai cittadini restano le alte tariffe da pagare e le inefficienze da subire. Da qui bisognerebbe partire per spostare il peso della tassazione dal lavoro alla rendita e dalle persone alle cose, come si dice.
C’è, infine, il livello locale, territoriale, dove si forma e circola tanta ricchezza che però sfugge al fisco. Grazie ai processi di riqualificazione urbana, le città sono state (e sono) teatro di grandi affari.

Ma in Italia manca, guarda caso, una imposta in grado di catturare le plusvalenze realizzate con le compravendite immobiliari. I comuni, da quando è stata abolita l’Imu sulla prima casa, hanno perso autonomia fiscale e sono perennemente in crisi finanziaria. È paradossale che abbiano la facoltà di applicare l’addizionale sull’Irpef, una tassa nazionale, ma poi non possano esercitare un reale potere fiscale sul loro territorio. Sarebbe ora di trasferire agli enti locali le funzioni catastali e i tributi di riferimento (imposte catastali, ipotecarie, di registro). Ma anche di ripristinare l’Imu sulla prima casa per i contribuenti con un reddito medio-alto. Di tutto questo, naturalmente, nella riforma fiscale non c’è traccia.