Ferite mai rimarginate che si riaprono. Equilibrismi tra Est e Ovest che saltano. E un dilemma che tormenta l’uomo forte della Serbia, Aleksandar Vucic, a meno di un mese dalle presidenziali.

All’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, nella Serbia avamposto di Mosca nei Balcani e candidata all’Ue sono emerse le contraddizioni di un Paese in bilico tra Mosca e Bruxelles.
Belgrado ha tentato ancora di preservare un equilibrio spazzato via dalla guerra: da un lato, ha espresso sostegno all’integrità territoriale di Kiev e votato a favore della risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu che ha condannato l’aggressione russa e la violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina. D’altro, si è rifiutata di allinearsi alle sanzioni imposte dall’Unione europea contro Mosca, nonostante «pressioni» in tal senso lamentate da stesso Vucic.

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ED È LO STESSO PAESE a spaccarsi. Lo scorso fine settimana Belgrado è stata attraversata da manifestazioni di segno opposto. Nazionalisti e comunisti sono scesi in piazza per esprimere la propria solidarietà a Russia e Bielorussia. «Serbi e russi fratelli per sempre», «la Crimea è Russia – il Kosovo è Serbia», hanno scandito i manifestanti, mentre calpestavano la bandiera dell’Ue e protestavano contro il governo per aver votato a favore della risoluzione di condanna dell’Onu.

Un’altra manifestazione, promossa dalla ong Donne in nero, ha sfilato nel centro della capitale serba a sostegno del popolo ucraino, chiedendo l’immediata cessazione dell’intervento militare russo. Un paese, una profonda divisione quindi riecheggiata anche nel cuore del Kosovo perduto: il monastero di Decani nel sud dell’ex provincia serba si è schierato dalla parte di Kiev e delle sofferenze patite dal popolo ucraino, senza però condannare apertamente l’aggressione russa.

LA COSTOLA SERBA in Bosnia-Erzegovina si è invece levata nettamente a favore della «causa russa»: a Banja Luka, capoluogo della Republika Srpska (una delle due entità a maggioranza serba che costituiscono la Bosnia-Erzegovina, ndr) si sono svolte manifestazioni di sostegno a Mosca, mentre il leader nazionalista serbo-bosniaco, Milorad Dodik, che negli ultimi mesi sta mettendo pericolosamente a repentaglio la sovranità e l’integrità territoriale del Paese, è corso in aiuto a Putin, stigmatizzando quella che ha definito la «satanizzazione» del popolo russo da parte dell’Occidente.

Le ambiguità di Belgrado hanno poi riacceso le tensioni con Pristina che in questi giorni ha chiesto a più riprese un’accelerazione nella procedura di adesione all’Ue e alla Nato. Il premier del Kosovo, Albin Kurti, ha accusato la Serbia di rappresentare una diretta minaccia per la regione finché non firmerà una dichiarazione di pace con Pristina e non prenderà le distanze dalla guerra russa all’Ucraina.

Un’ipotesi non del tutto priva di fondamento. Il precipitare degli eventi potrebbe spingere Vucic a un pericoloso avvicinamento a Mosca: a pesare non c’è solo la questione della dipendenza energetica dalla Russia, ma anche considerazioni di carattere elettorale. Una rottura con il Cremlino potrebbe provocare disordini in un Paese che ha sempre contato su Mosca in relazione al Kosovo, la cui indipendenza non è riconosciuta dalla Russia.

Senza contare poi il forte sentimento filo-russo e anti-Nato che permea la società serba, bombardata dalla propaganda russa e lacerata dal ricordo dei bombardamenti dell’Alleanza transatlantica nel conflitto degli anni Novanta.