In un fortunato film del 1919, J’accuse di Abel Gance, i morti, uccisi negli infiniti combattimenti della Prima guerra mondiale, si levano dalle tombe e, vagando di strada in strada, di viottolo in viottolo, raggiungono i loro luoghi di origine, per interrogare quanti gli erano sopravvissuti sull’utilità del proprio «sacrificio».

La guerra dopo la guerra è il tempo proprio alla memoria e alla storia. L’una e l’altra in continua tensione, spesso in contrasto tra di loro. Poiché non subentra la pace degli spiriti ma la divisione sui criteri per dare un senso all’esperienza trascorsa così come il problema, destinato a riproporsi costantemente, del valore morale da attribuire all’evento bellico. Con esso, dell’elaborazione del lutto.

Una brutale emancipazione

È con le guerre napoleoniche, e la leva di massa, che la guerra supera la sua natura di evento cataclismatico, ai limiti del fatto «naturale» e quindi imponderabile, per divenire invece parte di un più complesso percorso nella costruzione dell’identità collettiva, nazionale e repubblicana. Le premesse stanno nella serializzazione delle pratiche belliche, nel coinvolgimento diretto dei civili, nelle gigantesche battaglie, nell’industrializzazione delle violenze e nel grande numero di chiamati alle armi.

Ma non sono solo questi gli elementi che entrano in gioco, poiché il conflitto armato novecentesco, ed il suo prototipo per eccellenza, la Prima guerra mondiale, nella dimensione logorante della trincea costruisce una sorta di alter ego della catena di montaggio. L’una e l’altra costituivano dei fattori di emancipazione violenta delle società rurali dai loro fondamenti, proiettandole verso scenari industriali che costituivano una linea di non ritorno.

Le comunità andavano riorganizzandosi intorno a questa nuova esperienza esistenziale, di cui i combattimenti erano la punta di un iceberg in una più complessa trama, dove la compenetrazione tra individui e tecnica istituiva uno scenario inedito. A capirlo, nonché a manipolarne gli esiti, furono da subito gli esponenti di quella che sarebbe stata ben presto conosciuta come «rivoluzione conservatrice». In un gioco che spostava a destra gli assi delle comprensione e dell’elaborazione del trauma bellico, esaltandone il valore di catarsi, ossia di rigenerazione antiborghese dello spirito europeo, gli autori del protofascismo furono tra i primi a cogliere il valore della mobilitazione collettiva e gli effetti, a guerra ultimata, di ricaduta sulle coscienze.

Più in generale, a guerra conclusasi, le società europee si trovarono sospese tra l’apocalitticismo e il sentimentalismo: se il primo alimentava la percezione che nulla sarebbe stato più come prima, ovvero che tutto era mutato e che le certezze trascorse erano state disintegrate, il secondo enfatizzava il bisogno di trovare un comune denominatore tra quei tanti individui che avevano vissuto il conflitto come un fatto destinato a tramutare il proprio sé, la consapevolezza della propria identità, la costruzione di relazioni interpersonali.

La dialettica tra catastrofe e consolazione divenne quindi un tema dominante nel modo di recepire gli esiti del lunghissimo confronto armato. Di fatto, accompagnò le società europee per almeno vent’anni, fino agli esordi dell’altro grande scontro, la guerra del 1939-1945. Come tutto questo abbia inciso sui quadri culturali, sulle mentalità e sui modi di pensare il rapporto con il passato attraverso l’elaborazione delle idee di trauma e di perdita, costituisce il fulcro del volume di Jay Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea (il Mulino, Bologna 2014, pp. 342, euro 14). Si tratta della ristampa, a vent’anni dalla sua prima uscita, di un’opera importante, firmata da uno studioso di vaglia, che ha insegnato a lungo storia a Yale.

Il suo titolo originale, «luoghi della memoria, luoghi della perdita» è forse più puntuale nel definire l’oggetto del testo. Il quale cerca di ricostruire il complesso impatto sulle società europee delle vicende connesse alle carneficine belliche attraverso il formarsi di un linguaggio condiviso, il costituirsi di una mitologia e il determinarsi di retoriche collettive che diedero poi corpo al discorso sulla «vittoria perduta». Discorso trasversale, che avrebbe accompagnato i vincitori così come i vinti, in una sorta di dinamica della rivalsa destinata ad inghiottire, di lì a non molto tempo, ancora una volta l’Europa intera.

I troppi fantasmi

Un problema di fondo, per l’autore, è come la morte venga incorporata nell’esistenza dei sopravvissuti. La Grande guerra interessò non solo i combattenti, con i suoi nove milioni di morti, ma anche le decine di milioni di parenti e congiunti che componevano le famiglie di quanti vennero chiamati alle armi e che spesso non tornarono più alle loro case. Non di meno, l’Europa centrale, ad occidente come ad oriente, fu l’insieme di una serie di brutali, dissanguanti confronti, destinati a durare per lunghissimo tempo, in uno stillicidio di morti e distruzioni che fino ad allora mente umana ancora non riusciva a ricordare. I prototipi ideologici ma anche fattuali riposavano non nei conflitti continentali del secolo precedente ma nella guerra civile americana, dove si erano raggiunti livelli di efferatezza senza pari, insieme ai massacri della guerra di Crimea.

L’unico antecedente europeo significativo, sul piano della barbarie, era stata la sanguinosa repressione della Comune parigina nel 1871. Con la fine della guerra, al problema del ritorno dei sopravvissuti si aggiungeva ora quello del rimpatrio dei morti, così come la ricomposizione di ciò che era stato smembrato, fossero gli arti dei mutilati piuttosto che la rete di rapporti tra comunità dilacerate dalla violenza. Si trattava nel medesimo tempo di questioni di ordine materiale, quindi concrete, e di natura simbolica e allegorica.

La loro urgenza e inderogabilità stava nel fatto che rinviassero tutte al problema della rilegittimazione del potere politico nella delicata e lunga fase della smobilitazione e della riconversione economica e sociale verso una condizione di pace. Ma più in generale, per il fatto stesso che la Grande guerra avesse costituito l’habitat di un nuovo modo di intendere la violenza organizzata, la sua ricaduta sul comune sentire non poteva lasciare indifferenti le élite di potere.

Il problema di affrontare gli innumerevoli lutti individuali assorbendoli e sublimandoli in una dimensione corale, risarcitoria, capace di dare spessore ad una sorta di rappresentazione collettiva condivisa, ossia in grado di rinsaldare il nazionalismo, fu quindi un banco di prova fondamentale per i gruppi dirigenti del dopoguerra.

La morte in battaglia, così come la dispersione dei cadaveri e le mutilazioni, furono ben presto materia di decisioni politiche impegnative. Tanto più dinanzi al consolidarsi degli effetti della Rivoluzione d’Ottobre. Al pacifismo che, pericolosamente, si avvicinava al richiamo alla trasformazione della guerra militare in guerra sociale, come era avvenuto dal 1917 in poi in Russia, si contrapponeva ora un discorso pubblico che recuperava la morte come esito eroico e virile di scelte di campo consapevoli.

La gestione del reducismo non poteva peraltro limitarsi alle lunghe pratiche di smobilitazione. Per le società liberali si poneva il problema di riportare alla vita civile quanti erano stati educati al ricorso sistematico alla violenza, così come l’affrontare il destino di quanti dal fronte non avevano fatto ritorno. Il tema delle politiche della memoria assume così un valore che fino ad allora non aveva ancora conosciuto. Da un lato avviene una vera e propria trasfigurazione della sofferenza, attraverso il fenomeno dell’«apoteosi del caduto».

Trasfigurazioni mitiche

La morte violenta diventa indice di un sacrificio voluto e quindi cercato, arrivando ad attribuire al defunto qualità cristologiche. Un esempio, a tale riguardo, lo si ha nel cimitero-sacrario di Redipuglia, dove il martirio è inteso come la cifra sulla base della quale interpretare tutta la traiettoria bellica del Paese. All’interno di questo quadro di simbolismi, destinati ad essere recuperati a piene mani dal fascismo, si inseriscono tre elementi fondamentali della narrazione bellica: la diffusione dei monumenti al milite ignoto, la costituzione di cimiteri di guerra, l’edificazione in molte municipalità di piccoli mausolei in onore dei conterranei defunti.

Si tratta di tre strumenti della comunicazione pubblica dove all’abbruttimento condiviso in trincea si coniugava la solidarietà sociale, costruendo un vincolo di reciprocità tra l’una e l’altra. Per i nazionalismi postbellici si trattava di mettere a frutto, anche dinanzi al crescere dei fermenti sociali e alle rivendicazioni sul «dividendo della pace», un nuovo approccio alla coesione sociale, non potendo più prescindere da quelle forme di mobilitazione collettiva che ora si trasformavano in richieste di partecipazione alle decisioni nella sfera pubblica. Ma il libro di Winter non si ferma a questo livello della riflessione, cercando piuttosto di mantenere e alimentare un rapporto costante tra la dimensione micro, quella dell’esperienza dei singoli individui, e quella macro, legata alle ideologie prevalenti.

Numerose sono infatti le pagine dedicate al diffondersi di una cultura popolare basata sulla riparazione del trauma, nella quale il ricorso a credenze antiche, a superstizioni ma anche ad un inedito arsenale di significati, mutuati da una nuova consapevolezza, quella che derivava dal rifiuto dell’ineluttabilità della guerra, dava corpo e sostanza al suo progressivo rifiuto. Non più nel nome dell’autodifesa dei singoli dalla prevaricazione delle circostanze bensì sulla scorta di un progetto politico che nel capovolgimento dei rapporti di forza, a partire da quelli politici, trovava il suo fondamento.

Una ragione di più, quest’ultima, per tornare a riflettere su come i fascismi si siano inseriti a gamba tesa nei processi postbellici, senz’altro coartando la volontà di molti ma, non di meno, piegando quella di altri nella costruzione di un consenso che di lì a non molto avrebbe fatto della militarizzazione degli spiriti la premessa per un altro sfracello collettivo.