Sul conflitto che infuria nella regione etiope del Tigray il silenzio resta ostinato. Dopo l’azzeramento da parte del governo centrale di internet, dei telefoni cellulari e di rete fissa, dopo il divieto imposto ai giornalisti di viaggiare nell’area, i media locali non hanno gli strumenti per verificare le informazioni. E lo stesso vale per i giornalisti stranieri. Nei giorni scorsi l’autorità di vigilanza etiope ha dichiarato di voler sospendere il permesso stampa del corrispondente di Reuters e di aver già inviato avvisi  a Bbc e Deutsche Welle, le uniche testate giornalistiche straniere attive nel paese. Il silenzio è di tipo militare e per ora nulla è valso l’appello di Amnesty International  per i ripristino di tutte e comunicazioni.

Preoccupa tra l’altro il silenzio tombale sui numeri dell’aggressione tigrina alla base militare di Makallé del 4 novembre e che avrebbe portato alla dichiarazione di guerra del primo ministro Abiy Ahmed. Secondo l’agenzia di stampa locale Ena, nel comando i soldati fedeli al primo ministro sarebbero stati colpiti in un’imboscata dai compagni commilitoni schieratesi dalla parte tigrina. Un massacro tra fratelli, i cui scioccanti dettagli secondo il governo se diffusi porterebbero a una escalation della violenza tra etnie, oltre che tra gli stessi militari.

Ma la scarsezza di informazioni non aiuta ad arginare la straripante diffusione di notizie false avvenuta nel frattempo sul web. Proprio pochi giorni fa la Bbc ha attirato l’attenzione su alcune fotografie di armi in azione sul terreno che presentavano  segni evidenti di manipolazione digitale..

Dopo due anni di governo e venti giorni di guerra sembra proprio che il tallone di Achille del primo ministro, premio Nobel per la Pace ma anche ex militare, salito al potere con il sostegno degli stessi dirigenti del Tplf che ora combatte nel Tigray,  sia la comunicazione. Risuonano le parole del tweet pubblicato qualche giorno fa: “Le preoccupazioni che l’Etiopia possa precipitare nel caos sono infondate e sono il risultato della non comprensione profonda del nostro contesto”.